• venerdì , 18 Ottobre 2024

Bernanke sviluppista riluttante

Non è stata una gran settimana, quella passata, per i paesi del G7. Standard & Poor’s ha dato una previsione negativa per il debito pubblico degli Stati Uniti, pur mantenendogli la tripla A, e facendo intravedere una vera e propria degradazione, mentre non ha saputo resistere alla tentazione di sottolineare le disgrazie del Giappone, anche in quel caso facendo una previsione negativa per il debito del Sol Levante, il cui merito aveva abbassato solo qualche mese fa. In aggiunta, il Fmi ha previsto che, calcolato in parità di potere d’acquisto, il Pil della Cina potrebbe superare quello degli Stati Uniti già nel 2015, assai prima di quanto si fosse finora osato dire. Ma sia le previsioni del Fondo che le bordate lievemente jettatorie delle società di rating non sembrano scuotere più di tanto nè la leadership americana nè quella giapponese. Anche più interessante è che i mercati appaiono anch’essi pronti ad assorbire le cattive notizie, lasciando immutati i tassi a lungo termine sia sul debito giapponese che su quello americano. Certo, su di loro influisce assai di più la dichiarazione rilasciata al termine della riunione del Federal Open Market Committee del 27 aprile, che olimpicamente afferma di non temere l’inflazione derivata dal boom delle materie prime e del petrolio perchè la ritiene temporanea, e che dunque si fa influenzare assai di più, nel lasciare immutati i tassi di riferimento americani, dalle condizioni ancora meno che soddisfacenti della ripresa dell’economia americana, nella quale il comparto della edilizia sia residenziale che commerciale si dibatte ancora nella cupa situazione di crisi che lo affligge ormai dal 2007. E dalle ancora preoccupanti cifre della disoccupazione.
Possono quindi, anche dopo questi recentissimi eventi, continuare e magari crescere di tono, le geremiadi di coloro che, in America e altrove nel mondo occidentale, credono che la corsa del debito pubblico sia ormai senza freni e che al fondo di questa cavalcata apocalittica possano trovarsi solo o una fiammata inflazionistica purificatrice, che rimetta a zero i conti pubblici, o più realisticamente, uno spegnersi graduale della grande stagione dello sviluppo dell’Occidente, il “tramonto delle terre del tramonto”.
In effetti, i dati sul debito pubblico degli Stati Uniti, come d’altronde quelli degli altri paesi occidentali, sono oltremodo chiari, nell’indicare un trend in ascesa da prima della crisi, ma al quale la crisi ha dato forte impulso. Il debito pubblico americano nelle mani sia dei privati americani che dell’estero, ad esempio, è cresciuto, nei tre anni della crisi, del 50% e si prevede che arriverà a sfiorare il 100% del Pil nel 2020. Un crescendo impressionante anche per chi, come noi italiani, è abituato a vivere con percentuali come quella americana del 2020 ormai dall’inizio degli anni novanta del secolo scorso. E sono cifre, sulla affidabilità delle quali ormai nessuno negli Stati Uniti discute, che hanno mosso un dibattito aspro nel Congresso tra repubblicani e democratici. I primi si sono scoperti una vocazione a tagliare ogni sorta di spese per il welfare, per riportare il debito e il deficit entro i confini di una qualche normalità. I secondi anche loro propongono tagli, ma a tutte le spese, inclusa la difesa, sacra invece per i repubblicani.
La credibilità dei repubblicani è invero in questo settore assai scarsa, se si pensa che la gran parte del buco nei conti pubblici lo hanno fatto loro, nelle due presidenze di Bush figlio, dato che Clinton aveva lasciato conti splendidamente in ordine. Addirittura, chi ha buona memoria, ricorda un dibattito che oggi suona surreale, fiorito negli anni novanta, sulle conseguenze della progressiva scarsità di buoni del tesoro americani, indotta dalla gran salute delle finanze federali.
Le guerre del giovane Bush e la sua pretesa di ridurre allo stesso tempo le imposte e persino di concedere ai vecchi assistiti da Medicare tutte le medicine gratis (facendo un enorme regalo alla cosiddetta Big Pharma), riuscirono in pochi anni a capovolgere i conti pubblici risanati da Clinton. Il colpo di grazia è venuto poi dalla reazione della politica economica americana alla grande crisi cominciata nel 2007. Quest’ultima ha drammaticamente ridotto il gettito delle imposte, per via della diminuzione dei redditi. I conti pubblici hanno dovuto sopportare anche il peso dei giganteschi salvataggi del sistema finanziario, operati tuttavia senza in alcun modo punire le banche salvate nè i loro manager che infatti sono di nuovo all’opera per scatenare, con le loro sconsiderate azioni, una nuova crisi.
La finanza pubblica americana ne ha riportato uno sconvolgimento profondo, che le cifre sia del deficit che quelle del debito bene esprimono. Ma i gestori della cosa pubblica sono riusciti a evitare che le quotazioni di borsa restassero ai livelli infimi ai quali erano crollate e hanno fatto in modo che tornassero ai livelli del 2008. Hanno così salvato dalla bancarotta l’intero sistema pensionistico americano, che sulle azioni completamente si fonda, una prospettiva che, all’inizio del 2009, era sembrata del tutto realistica, oltre che terrorizzante.
Mentre il debito pubblico, spinto dal deficit, cresceva negli USA (e anche nel resto dei paesi occidentali) a tassi mai visti prima, in tempo di pace, i tassi richiesti dai risparmiatori per comprarlo e tenerlo in portafoglio, al contrario, scendevano a livelli anch’essi visti solo nel Giappone della grande deflazione degli anni novanta. Ma se in Giappone i tassi zero si spiegano col fatto che il debito pubblico è tutto in mano alle istituzioni finanziarie nipponiche, quello americano è invece per una buona metà posseduto da investitori stranieri, tra i quali spiccano le autorità giapponesi e cinesi, ma anche istituzioni private e governative di altri paesi. La fiducia di costoro non dovrebbe essere influenzata dal patriottismo. Come spiegare dunque che, al montare delle cattive notizie sul presente e ancor più sul futuro del debito pubblico, gli stranieri che lo detengono reagiscano con tanto stoicismo? Una spiegazione insiste sulla importanza della ferrea determinazione con la quale la Fed ha condotto i suoi ripetuti, enormi programmi di creazione di liquidità mediante acquisto di titoli, anche di scarso merito,in possesso delle banche americane.
Di fronte a tanta decisione da parte delle autorità monetarie americane, che emettono la moneta egemone mondiale, alla quale esiste finora solo il flebile contraltare dell’euro, anche chi avesse voluto ostacolare la linea politica della Fed avrebbe avuto scarsa presa sul mercato. Specie perchè allo stesso tempo, la domanda di credito da parte delle imprese e delle famiglie ha ristagnato quasi ovunque nei paesi occidentali. E’ bene ricordare anche che la Cina ha preferito, a partire dallo scoppio della crisi, fare una precipitosa marcia indietro rispetto ai suoi dichiarati intenti di rivalutare la propria moneta onde ridurre il proprio enorme surplus commerciale, e ha stoicamente ripreso ad assorbire titoli di stato americani pur di tenere fermo il cambio del renmimbi.
La Fed il 27 aprile ha confermato la sua intenzione di tenere fermi i tassi e continuare a restituire al mercato la liquidità ottenuta rivendendo i titoli comprati coi salvataggi. Chi conosce gli attuali governatori è sicuro che, prima di cambiare politica, essi vorranno veramente avere prove definitive che la ripresa corre con le proprie gambe e che ci sia una reale minaccia di surriscaldamento dell’economia. Due eventualità ancora piuttosto improbabili, se si pensa a quanto può influire sulla domanda mondiale l’immane disastro giapponese, la fine del quale tutti quelli che amano il Giappone si augurano, ma che realisticamente non sembra profilarsi come imminente. O un non improbabile peggiorare della situazione politico militare nei paesi musulmani, indotto anche dalla evidente impreparazione della leadership occidentale ad affrontarne le inedite difficoltà.
D’altro canto, nel breve cosa dovrebbe comprare se non titoli americani chi ha avanzi finanziari da investire, ora che la zona Euro e la Unione europea in generale sta facendo del suo meglio per autoaffondarsi, togliendo autorevolezza alla moneta unica europea e ai titoli pubblici dei suoi membri meridionali? Ciononostante, la strana visione di politica economica, dettata dai tedeschi alla Bce, riesce a far salire di valore la moneta unica, rispetto al dollaro, con quali vantaggi per l’economia europea assai poco si comprende, a voler essere beneducati. Le previsioni di emissioni di titoli da parte dei governi europei, e le necessità di ricapitalizzazione delle banche europee, infatti, fanno prevedere una vigorosa offerta di carta finanziaria sia pubblica che privata che forse la Bce dovrebbe cercare di fare assorbire al minor costo possibile per gli emittenti.
Si è detto che da una situazione di debito pubblico in rapido aumento si esce con l’inflazione, con una adeguata crescita del PIL o con una mistura di entrambe. Mentre la leadership americana sembra saperlo ma non riuscire a ottenerlo, quella europea, guidata dalla Germania, si incaponisce a pensare che qualcun altro, al mondo, continuerà a creare la domanda necessaria alla crescita.

Fonte: Affari e Finanza del 3 maggio 2011

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