L’euro-tsunami sembra rientrare. Ma nel corso degli ultimi nove mesi la grande onda della crisi ha fatto a tempo a modificare profondamente il panorama europeo e gli equilibri di potere. I paesi dell’euro-area hanno dimostrato più volontà politica nel risolvere la fase acuta d’inizio maggio di quanta il mercato e gli analisti non europei supponessero. I governi hanno reagito con misure di correzione fiscale che stanno dando buoni risultati. In Spagna ci sono segni positivi anche dal lato del disavanzo con l’estero. In Grecia alcuni dati fiscali sono più incoraggianti del previsto. Nell’ultima settimana le aste dei titoli pubblici di tutti i paesi critici, perfino dell’Ungheria ai bordi dell’euro, hanno registrato una domanda maggiore dell’offerta. Da ormai un mese c’è fiducia nell’euro.
Tuttavia la crisi ha anche mostrato che la volontà politica mossa in extremis dall’emergenza finanziaria non basta. Le differenze reali e strutturali nelle economie sono diventate evidenti. I divari di competitività sono profondi e incidono sulla sostenibilità dei debiti. Così i rendimenti dei titoli pubblici, che prima della crisi stavano uniformandosi in tutta la zona euro, sono destinati a rimanere più ampi. L’euro-area si è consolidata e al tempo stesso dispersa: la Germania si è dimostrata l’unico paese rifugio, i cui tassi d’interesse scendono durante le crisi mentre quelli degli altri aumentano. Non c’è dubbio che la leadership di Berlino sia diventata anche politica. Ancor più determinata ad accumulare risparmio, e inevitabilmente a reinvestirlo all’estero, la Germania gode più di prima di un elemento strutturale che le consente di giocare il ruolo di arbitro delle sorti economiche europee.
Grazie alla propria disciplina fiscale e al surplus con l’estero, in caso di crisi futura (e l’eventualità sarà d’ora in poi incorporata in tutte le previsioni sull’Europa), Berlino sarà in grado di guardare con distacco alla rincorsa disperata degli altri paesi, pressati dai mercati delle obbligazioni pubbliche a convergere economicamente – e quindi politicamente – verso la Germania. Già ora è evidente: quando Berlino ha dettato i tempi dell’exit strategy fiscale, tutti hanno dovuto adeguarsi. La crisi in sostanza ha spostato il baricentro politico europeo da Bruxelles a Berlino. Ma la storia di questa crisi legittima realmente una leadership tedesca tanto forte?
La svolta della crisi è certamente venuta con l’annuncio degli stress test sulle maggiori banche europee. I grafici dei differenziali dei tassi dimostrano che quel passaggio, accelerato da Madrid, ha invertito la divergenza tra i paesi e di fatto ridotto sia la causa sia i sintomi della crisi. A ben vedere, però, proprio gli stress test hanno raccontato una storia poco rassicurante sul sistema bancario tedesco. Senza aiuti diretti dello stato nell’ordine di 50 miliardi di euro, alcune delle Landesbanken e la Commerzbank (che da sola aveva ricevuto 16,4 miliardi) non avrebbero superato gli stress test, così com’è avvenuto alla Hre. Su alcune Landesbanken pesa tuttora il dubbio di una contabilità troppo generosa ammessa dalla vigilanza tedesca. Fino a inizio di luglio si parlava di almeno tre banche – non quindi della sola Hre – destinate a fallire il test.
Il successivo distacco dagli accordi di Basilea 3 della Germania, unico paese a non sottoscrivere una definizione per altro molto debole di capitale, rafforza la sensazione che il sistema bancario tedesco rappresenti il lato oscuro del successo economico tedesco. I fondi ricevuti dagli azionisti pubblici, “Stille Einlagen” non sarebbero considerati come Tier1, capitale primario, secondo i nuovi criteri di Basilea. Per le Volksbanken inoltre sono state ammesse definizioni di capitale che non sarebbero pienamente giustificate e questo è avvenuto perché i negoziatori tedeschi sono riusciti a tutelare a Basilea le forme giuridiche delle Casse di Risparmio, delle Volksbanken e delle Raffeisenbanken.
Anziché cogliere la crisi come opportunità per riformare il proprio sistema finanziario, le autorità politiche e regolatorie tedesche ne hanno approfittato per rafforzarne le difese e le peculiarità. Il sistema bancario tedesco, non solo pubblico, è una ben rodata catena di trasmissione tra politica ed economia dei quali assorbe alcuni costi e inefficienze. Nel bene e nel male, le banche tedesche facilitano il governo del territorio da parte di amministratori non sempre efficienti e al tempo stesso agevolano le trasformazioni industriali evitando che esse diventino traumatiche per la società. Ma la bassa redditività che emerge dai bilanci bancari tedeschi non è solo il “costo” del modello sociale tedesco – dimostratosi per tutto il resto il più efficiente di tutti – ma è stato in passato anche la ragione degli investimenti di portafoglio in titoli molto rischiosi.
Ora che gli investimenti in titoli subprime sono improponibili, le banche tedesche hanno una nuova possibilità di compensare la scarsa redditività dell’attività di credito. Si possono infatti finanziare a basso costo per reinvestire in titoli sovrani della periferia dell’euro-area sulla cui stabilità Berlino ha di nuovo il pieno controllo attraverso un sistema rafforzato di sanzioni europee e attraverso il proprio surplus di risparmio. L’aumento del differenziale d’interessi tra i paesi dell’euro – anche a crisi passata – garantirà al sistema – non solo bancario! – tedesco un vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi dell’euro-area condizionando il funzionamento del mercato unico.
Il tema degli investimenti esteri delle banche tedesche è così delicato che sei istituti si erano rifiutati di comunicare subito le loro posizioni in titoli pubblici esteri e solo lunedì scorso, unici dei 91 istituti soggetti a stress test, hanno fornito l’informazione (Deutsche Bank, Landesbank Berlin, Hypo Real Estate, DZ Bank, WGZ Bank, e Deutsche Postbank oltre ad ATEBank l’unica banca greca ad aver fallito il test). Deutsche Bank aveva i titoli sovrani nei portafogli di trading e quindi contabilizzati con il criterio del “mark to market”, non c’era quindi alcuna ragione di non essere trasparente se non la volontà di non esserlo e forse di non rivelare i trasferimenti di titoli effettuati (testimoniati dalla volatilità delle posizioni da un trimestre all’altro). Il sospetto inoltre è che alcune banche abbiano scaricato i titoli greci nel portafoglio della Hre, già affidata all’aiuto statale.
La giustificazione che si ascolta a Berlino è che, seppur forse poco trasparenti, le pratiche tedesche non gravano sui bilanci degli altri paesi, mentre i francesi starebbero pulendo i portafogli delle loro banche scaricando i titoli critici sulla Bce. Fonti vicine alle banche tedesche parlano di titoli per decine di miliardi di euro scontati dalle maggiori banche francesi presso la Bce. Se così è, a maggior ragione la risposta tedesca dovrebbe essere quella di chiedere più trasparenza. Non meno. La leadership tedesca in Europa è un fatto, ma il suo esercizio può avvenire solo tutelando l’Europa stessa, il suo mercato interno e l’aperto scambio di informazioni. In caso contrario la leadership durerà poco, perché durerà poco l’Europa.
Berlino, gigante dalle banche d’argilla
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