• lunedì , 23 Dicembre 2024

Benvenuti al Sud. Quello vero.

Parliamo pure di Mezzogiorno, ma facciamolo senza rete, senza il solito “buonismo” che ci induce a compiangere – con l’aggiunta di una retorica tardo-patriottica alimentata dal centocinquantesimo anniversario della Unità – la sorte sventurata dei nostri fratelli delle regioni meridionali che un destino cinico e baro ha condannato, loro incolpevoli, al sottosviluppo.
Facciamolo, senza lasciarci distogliere dal successo di un film divertente “Benvenuti al Sud” che sta facendo buoni incassi e che fornisce un’idea idilliaca, quasi bucolica, del Mezzogiorno, prendendo a riferimento una cittadina arrampicata su di un cucuzzolo montuoso, abitata da gente simpatica e cortese, dedita alla buona cucina e all’ospitalità. Il Sud è un punto cardinale.
Tutti i paesi ne hanno uno, specie – ma non solo – nell’area del Mediterraneo. Eppure la Spagna e il Portogallo sono riusciti, avvalendosi delle risorse dei Fondi strutturali messi a disposizione dalla Ue, a capovolgere situazioni depresse da secoli e a ristabilire un minimo di equilibrio tra le differenti aree di quei paesi.
La Germania – nonostante le crisi ricorrenti – è stata persino capace di inglobare ed omologare, dal 1989 ad oggi, i Land che si trovavano al di là del Muro di Berlino, benché la loro struttura produttiva, economica e sociale ereditata dalla DDR – e rappresentata dalla Trabant-fosse solo da cestinare.
Da noi la “questione meridionale” è una piaga perennemente aperta. Per affrontarla e risolverla abbiamo impiegato tutti gli strumenti possibili dell’intervento pubblico, collezionando soltanto una serie di fallimenti.
Nel secolo scorso, il Sud è stato il teatro della riforma agraria e della lotta al latifondo; ha potuto usufruire delle risorse prima della Cassa, poi dell’intervento straordinario. Nel Mezzogiorno, attraverso le Partecipazioni statali, si è sviluppata l’industria di base, salvo dover constatare ben presto che i grandi kombinat della siderurgia e della petrolchimica rinsecchivano come piante senza radici in un contesto in cui non riusciva a crescere un tessuto industriale, fatto di piccole e medie imprese vive e vitali. Persino l’industria privata è stata indirizzata (e favorita) ad investire nelle regioni meridionali. Tra pochi anni ciò che rimarrà della Fiat in Italia saranno gli stabilimenti dislocati nel Sud, con la sola eccezione di Termini Imerese.
Eppure, nessuna opportunità è stata colta in tutte le sue potenzialità. Neanche i terremoti. Basta mettere a confronto la realtà del Friuli e le trasformazioni di cui è stato capace attraverso la ricostruzione con quanto è avvenuto invece nell’area del cratere, in Campania, Basilicata e dintorni, dopo il terremoto del 1980. E’ sufficiente percorrere in auto quelle località per imbattersi in tanti nuclei industriali fantasma che non sono mai stati in grado di offrire un solo posto di lavoro. Ma è inutile ripercorrere le tappe di una pagina (anzi di più pagine) di storia italiana assai critica. Limitiamoci a qualche episodio del presente.
A Napoli è di nuovo emergenza rifiuti. Che cosa ci si può aspettare da una comunità che non è neppure in grado di risolvere un problema essenziale come quello del trattamento delle immondizie? Non ci sono soltanto i mucchi di rifiuti agli angoli delle strade, ma sono stati persino danneggiati i veicoli adibiti alla raccolta. E non si è trattato di un sasso tirato da un manifestante esagitato, ma di una spedizione punitiva che ha messo fuori uso ben 180 automezzi. In una città e in una provincia dove annualmente ci sono più morti ammazzati che nella Chicago di Al Capone. Eppure la magistratura inquirente di Napoli rincorre gli scoop, si occupa di Calciopoli ed intercetta “per caso” le conversazioni dei giornalisti milanesi. Tutti i servizi lasciano a desiderare: dalla sanità alla assistenza sociale. Ma esiste una diffusa cultura dell’abuso dei trasferimenti monetari e dei disservizi pubblici, come dimostrato, da un lato, le truffe all’Inps e i casi di malasanità, dall’altro.
La criminalità organizzata si è infiltrata ovunque, fino al punto di aver requisito parti del territorio al controllo dello Stato. Eppure nel Sud vi sono risorse enormi che non vengono sfruttate come si dovrebbe. Migliaia di chilometri di coste tra le più belle al mondo, producono minor valore aggiunto dei cento chilometri romagnoli compresi tra Cattolica e Ravenna. I sardi vivono in una delle Isole più apprezzate dal turismo internazionale, ma l’estate scorsa hanno fatto notizia i pastori, come se sull’allevamento delle pecore si potesse costruire una prospettiva di sviluppo. E che dire del tormentone infinito di Pomigliano d’Arco? In quello stabilimento, la Fiat ha proposto un nuovo modello di relazioni industriali in un’area di frontiera, sfidando i sindacati a dimostrare che anche in Campania è possibile lavorare, non tanto come in Polonia, quanto come a Detroit e in Canada. Perché non è più consentito ad imprese, che devono competere sul mercato globale, di impiegare ingenti risorse per mantenere dei posti di lavoro improduttivi per i quali la retribuzione è comunque pretesa, mentre la prestazione è soltanto probabile. Tutti abbiamo assistito, con stupore, alle numerose difficoltà incontrate, in quella realtà, dal gruppo automobilistico, benché molte delle sue denunce sull’assenteismo anomalo e sulla conflittualità esasperata fossero unanimemente ritenute vere e fondate.
Se dobbiamo parlare del Mezzogiorno bisogna partire da un atto di onestà intellettuale: cestinare i dati ufficiali che riservano a quelle aree del paese rappresentazioni al limite dell’indigenza. Alti tassi di disoccupazione soprattutto femminile e giovanile, retribuzioni e pensioni più basse della media e quant’altro. Delle due l’una: se fossero veri i dati sui redditi e l’occupazione il Sud non potrebbe permettersi il tenore di vita e di consumi di cui gode. Basta osservare un’inchiesta de Il Sole 24 Ore (che cita una ricerca del centro studi Sintesi) da cui emerge che anche nel Mezzogiorno esiste un importante scostamento tra i redditi disponibili e i consumi effettuali.
A Ragusa circola, ad esempio, quasi il 30% in più di auto rispetto a Genova o a Bolzano. A Sassari e a Cagliari si consuma in proporzione più energia elettrica rispetto a Milano e a Roma, mentre a Campobasso ad Avellino l’aumento dei depositi bancari fa impallidire le performance che si registrano a Torino, Pavia e in larga parte del Nord Est. Ciò significa che l’economia sommersa ha un peso decisivo nelle regioni meridionali.
Secondo i dati del 2007 (gli ultimi disponibili) le regioni del Nord hanno avuto un’incidenza del lavoro irregolare pari all’8,9%, quelle del Centro del 10,2%, quelle del Sud del 18,3%. Le regioni del Sud, con la sola eccezione dell’Abruzzo, presentano, tutte, valori superiori alla media nazionale.
Quanto all’evasione fiscale si riscontrano i medesimi trend. Vi sono regioni nel Sud dove l’evasione raggiunge l’80%.
Di fronte al clamore di questi dati e all’inutilità di centinaia di interventi rivolti a venire a capo di un processo tanto consistente e radicato, verrebbe da rivolgersi una domanda: non sarà che l’economia meridionale non è in condizione di attenersi a regole forzatamente uniformi, che tutti ne siamo consapevoli, ma che piuttosto di accettare una realistica diversificazione, al limite del dumping sociale, preferiamo chiudere un occhio e lamentarci periodicamente contro il lavoro sommerso e l’economia in nero?

E a predicare una “unità risorgimentale” cavalcata dalla sinistra in chiave anti-Lega e un po’ anche anti-Vaticano? Fino a prova contraria le leggi dovrebbero essere fatte a misura della società. Noi pretendiamo, invece e inutilmente, che la società si adatti alle leggi. E le leggi le scriviamo con la penna intinta nell’ideologia.

Fonte: Occidentale 11 ottobre 2010

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