Il nodo centrale della vertenza salari in corso riguarda come mettere in busta paga i differenziali di produttività. Due analisi, una della London of Economics (Lse) e della Università di Oslo ed una della University of British Columbia (NBER Working Papers No. W13351 e No W 13523), su dati americani e britannici relativi prevalentemente allindustria manifatturiera, concludono che la crescente dispersione salariale degli ultimi tre lustri rispecchia, in gran misura, modifiche della domanda di lavoro a favore di occupazioni connesse a produzioni ad alto valore aggiunto (spesso nei servizi piuttosto che nelle fabbriche). Un cambiamento strutturale afferma uno studio dellIese di Barcelona e dellUniversità di California a Davis.( Instituto de Empresa Business School Working Paper No. WP06-22) – che molti Paesi Ue hanno tentato di contrastare con laumento del carico fiscale, dei trasferimenti pubblici e della regolazione del mercato del lavoro e dei prodotti: politiche controproducenti – hanno aggravato il fenomeno invece di alleviarlo. Cè uneccezione precisa un lavoro Lse in uno degli ultimi fascicoli dellEconomic Journal -: i Paesi scandinavi, i cui sindacati hanno cercato di pilotare il cambiamento delle economie europee derivante dalla globalizzazione, non di difendere lesistente. Rare le indagini che riguardano specificamente lItalia: Particolarmente utile uno studio della Banca dItalia, del Centro di ricerche in economia e statistica dellUniversità di Maastricht e dellUniversità della California a Berkeley (Nber Working Paper No. W13296 consultabile on line; dovrebbe essere disponibile su carta in Italia tra alcune settimane): applicando un modello econometrico recente a dati MedioCredito-Capitalia per il periodo 1995-2003 giunge a conclusioni interessanti: linnovazione ha contato molto poco nellandamento delloccupazione nel periodo studiato e quel po che ha inciso non è di processo (come normalmente ritenuto) ma di prodotto (oppure di metodi di vendita di prodotti tradizionali sul mercato mondiale).
Questi riferimenti non vogliono portare un pizzico di erudizione in un dibattito che si svolge allinsegna del sindacalese e del politichese. Intendono smentire lipotesi diffusa pure in ambienti accademici si guardi allultimo articolo di Olivier Blanchard sul Journal of Economic Literature- secondo cui tanto poco si sa su produttività e salari che ci si deve affidare a formule magiche (ispirate al vodoo) per colmare squilibri dei redditi da lavoro tali da essere diventati un problema economico e sociale. Dalle analisi citate (nonché da numerosi studi dellIza, listituto federale tedesco delle ricerche sul lavoro , ente distinto e distante dalle nostre beghe) si delinea con chiarezza lesigenza di modificare radicalmente gli obiettivi della concertazione (perché diano la priorità al cambiamento non alla tutela dellesistente) e della contrattazione collettiva (perché la parte economica venga definita in modo decentrato il più vicino possibile allazienda , dove la produttività si tocca con mano). E la riduzione del carico tributario sulle fasce deboli ? Benvenuta (ove fattibile sotto il profilo della finanza pubblica) come misura transitoria in attesa di una più vasta marcia indietro del peso del fisco e della regolazione per tutti. Con maggiore libertà, gli italiani sapranno risolvere questi nodi più efficacemente di quanto non si riesca a farlo al tavolo del terzo piano di Palazzo Chigi.
Bene la produttività, ma l’innovazione?
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