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Banche, la sfida della redditività

Le prime dieci banche italiane, che rappresentano i tre quarti dell’intero sistema bancario nazionale, nel 2007, quando ancora la crisi finanziaria mondiale non aveva dispiegato tutti i suoi malefici effetti, avevano complessivamente guadagnato 18 miliardi. L’anno dopo gli utili si erano più che dimezzati (7,9 miliardi, -56%), e nel 2009 erano scesi di un altro 23,7% a 6 miliardi, un terzo esatto di quanto fossero due anni prima. Nei primi nove mesi del 2010 il risultato è stato di 4,9 miliardi (contro i 5,1 dello steso periodo dell’anno scorso), il che fa presumere che l’anno si chiuderà con un utile per le top ten di 5,8 miliardi (-3,5%) e per l’intero sistema (oltre 800 istituti, di cui più della metà Bcc) di non oltre 7,5 miliardi. Se però questi risultati “in corso” si dovessero rendere al netto delle sopravvenienze straordinarie, allora la riduzione dell’utile sarebbe del 34%, e cioè rispettivamente di 3,8 e di 4,8 miliardi. Insomma, in tre anni le banche italiane hanno perso l’80% dei loro guadagni, ed essendo questi risultati medi – se si applicasse il principio statistico del “pollo di Trilussa”, quest’anno ogni istituto guadagnerebbe poco più di 9 milioni – significa che ora qualcuno rischia di chiudere a zero o anche in rosso, salvo non tamponi le falle vendendosi partecipazioni e immobili.
Questi ed altri importanti dati sono emersi in un convegno della Carige, che in virtù della sesta posizione in classifica sta nella pattuglia di testa del sistema. Ma soprattutto, è emersa una valutazione che il direttore generale di Carige, Ennio La Monica, ha suggerito e che sarebbe bene tutti facessero propria: oggi, per le banche italiane, il principale problema non è la patrimonializzazione, come farebbe pensare il dettato di Basilea 3, ma la redditività. “Niente autofinanziamento e soci a bocca asciutta: dove troviamo i soldi per ricapitalizzare come impone Basilea 3 se le banche non sono redditizie?”, si è chiesto con logica tutta genovese ma ineccepibile La Monica (che pure dovrebbe farcela, grazie anche ad alcune poste non ricorrenti, a mantenere utile e dividendo inalterato in Carige). Si dirà: hanno lucrato troppo prima, ora stiano un po’ a digiuno. Vero, ma demagogico. Perché senza un sistema bancario forte – e molti casi, ultimo quello irlandese, lo dimostrano chiaramente – l’intera economia non va da nessuna parte. Dunque, se non è necessario che il return on equity (roe) sia per forza a due cifre – prima della crisi molti fondi sostenevano che se il roe non era almeno del 20% non valeva la pena investire in quelle banche, ma ora sappiamo a che prezzo si ottenevano certi risultati – altrettanto certo è che sia bene averlo non distante dal 10%. Cosa non facile se si considera che sul fronte dei ricavi i tassi bassi rendono tutto più difficile (quest’anno i margini si mediamente ridotti di 60 punti base), mentre sul fronte dei costi, considerato che il 50-60% del totale è costo del lavoro, o si riducono i dipendenti o si tagliano i costi operativi (25-30% del totale), che però tendono a crescere per via degli aggravi burocratici (“350 interventi normativi da quando è partita la crisi”, tuona il presidente di Carige, Giovanni Berneschi). Si potrebbe far così: qualche banca taglia stipendi e bonus eccessivi ai manager, e i politici rivedono norme come quella anti-usura che servono solo a fare propaganda.

Fonte: Il Messaggero del 20 novembre 2010

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