• venerdì , 22 Novembre 2024

Banche, la lunga marcia verso la concorrenza

Perché su un determinato mercato si sviluppi la concorrenza, la pluralità di operatori è condizione necessaria, ma non sufficiente. Il mercato dei servizi bancari conferma palesemente la veridicità di questo assunto: le banche sono centinaia, grandi, medie e piccole, nazionali, regionali e locali. Eppure sono ricorrenti le polemiche attorno alla mancanza di concorrenza, cui si imputa scarsa efficienza e, quindi, costi elevati. A motivo di queste polemiche, in Italia la banca non ha un “buon nome”: non è percepita come una impresa, ma la si confonde ancora come parte di un sistema pubblico, burocratizzata, nei confronti della quale l’utente (spesso è ancora improprio definirlo cliente) è sempre e comunque un “contraente debole”.

Perché su un determinato mercato si sviluppi la concorrenza, la pluralità di operatori è condizione necessaria, ma non sufficiente. Il mercato dei servizi bancari conferma palesemente la veridicità di questo assunto: le banche sono centinaia, grandi, medie e piccole, nazionali, regionali e locali. Eppure sono ricorrenti le polemiche attorno alla mancanza di concorrenza, cui si imputa scarsa efficienza e, quindi, costi elevati. A motivo di queste polemiche, in Italia la banca non ha un “buon nome”: non è percepita come una impresa, ma la si confonde ancora come parte di un sistema pubblico, burocratizzata, nei confronti della quale l’utente (spesso è ancora improprio definirlo cliente) è sempre e comunque un “contraente debole”.

Nella misura in cui queste asserzioni corrispondono alla realtà – e in larga misura vi corrispondono – possono apparire paradossali a molti banchieri e bancari, tutto il giorno e tutti i giorni impegnati in una competizione che si gioca sul filo dei decimi di punto di quel tasso o di quella commissione, per una posta costituita da clienti – clienti, in questo caso sicuramente si – che hanno sempre da far valere la “migliore offerta” di qualche concorrente che intende accaparrarselo. Ed, infatti, è una realtà anche questa: quella di una concorrenza che in molti casi opera con un accanimento non facilmente riscontrabile in altri settori.

Che realtà anche tra loro contraddittorie possano convivere in tempi di transizione non deve necessariamente suscitare stupore. E questi, per le banche italiane, sono tempi di una transizione cominciata una decina di anni fa, proseguita con ritmo a tratti anche incalzante, e tuttavia ancora lontana dall’essere compiuta, tanto era il tempo da recuperare. Un Paese come l’Italia, tra i più evoluti e agiati, con un volume di interscambio con l’estero prossimo al 50% del Pil, era arrivato sulla soglia degli anni’90 con un sistema finanziario chiuso agli scambi con il resto del mondo, ed un sistema bancario con una autonomia imprenditoriale fortemente imbrigliata in una fitta rete di vincoli amministrativi, ed un marcato dominio della proprietà pubblica. E dire pubblica è ancora poco: tra le grandi e medie banche vi erano quelle strutturate come veri e propri enti pubblici, altre come società per azioni ma controllate da enti pubblici, altre ancora – le Casse di Risparmio – come fondazioni. Questa situazione è ancora ben viva nella memoria, ma occorre sinteticamente richiamarla perché è l’origine di un percorso di ricomposizione e ristrutturazione dell’intero sistema nel quale sono radicati sia il bene che il male della realtà attuale del sistema bancario italiano.

La complessità da risolvere era la coincidenza temporale del processo di liberalizzazione finanziaria con quello di privatizzazione delle banche pubbliche. Entrambi erano dettati dalle regole di convivenza internazionale invalse dagli anni di Reagan e della Thatcher e dalla conseguente globalizzazione dei mercati, sicché l’Italia si è trovata a dover realizzare contestualmente in pochi anni riforme che gli altri Paesi occidentali o non hanno mai avuto bisogno di realizzare, o lo hanno potuto fare più tempestivamente e con maggiore gradualità.

Il problema della privatizzazione consisteva nel fatto che nel campo bancario di spazio per l’imprenditoria privata ce n’è sempre stato poco; è stato uno spazio interstiziale tra la schiacciante presenza pubblica da un lato e quello della cooperazione dall’altro. Una privatizzazione realizzata nella più semplice ed immediata formula dell’offerta pubblica sul mercato, di conseguenza, avrebbe rischiato di spalancare le porte del ricco mercato italiano ad un massiccio ingresso di aziende bancarie straniere. Qui, infatti, il problema si incrocia con quello della liberalizzazione. Anche a motivo del dissesto delle finanze statali, l’Italia è caratterizzata da proprietà finanziarie delle famiglie assai cospicue. Finché hanno operato i vincoli al movimento dei capitali, queste proprietà erano detenute in larga prevalenza in titoli di Stato e in depositi bancari; in ogni caso con una ampia, quasi totalizzante, intermediazione delle banche. I vincoli amministrativi ai quali queste dovevano sottostare le rendeva affidabili guardiane della funzionalità del circuito che si apriva con il disavanzo delle amministrazioni pubbliche, quindi immetteva nel sistema economico risorse finanziarie, e si chiudeva drenando quelle stesse risorse attraverso la sottoscrizione di titoli pubblici da parte delle famiglie o da parte delle banche (le quali vi impiegavano i depositi delle famiglie). Già la liberalizzazione del movimento dei capitali implicava qualche rischio per la funzionalità di questo circuito. Figurarsi, poi, se, in aggiunta, banche straniere avessero trovato campo nell’assicurarsi la gestione (o anche soltanto l’intermediazione) di quel gigantesco e fluido volume di attività finanziarie in possesso delle famiglie italiane.

Il processo di privatizzazione, dunque, doveva di necessità seguire i criteri più prudenti, anche a scapito di un più sollecito raggiungimento di standard di efficienza, di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza più prossimi a quelli dei sistemi bancari dei Paesi più evoluti. Questa prudenza si è tradotta nel formare nuclei azionari di controllo a prevalente composizione nazionale e guidati da chi già fosse in possesso di una affidabile esperienza bancaria. Di fatto, le banche pubbliche sono state affidate ad altre banche italiane, con dosate presenze sia di banche estere che di imprenditori privati. Ma non basta. Queste “altre banche” sono in larga prevalenza fondazioni, ossia organismi pubblici anch’esse. Per altro, le fondazioni, ossia gli enti proprietari delle aziende bancarie che erano costituite nella forma di fondazioni (come l’Istituto S. Paolo o tutte le Casse di risparmio), non solo rispettavano le due condizioni dettate dalla prudenza del processo di privatizzazione – erano già operatori bancari ed erano italiane – ma soprattutto disponevano delle ingenti risorse finanziarie necessarie per rilevare le quote di controllo delle banche da privatizzare. Con la legge Amato, infatti, le fondazioni si erano ritrovate proprietarie del 100% delle rispettive aziende bancarie; vendendo le quote eccedenti quelle necessarie per mantenere il controllo della banca, hanno realizzato le risorse necessarie per poter acquistare il controllo di altre banche.

Fin qui l’effetto è solo quello della perplessità che insorge nel considerare una privatizzazione delle banche pubbliche un processo che si è risolto essenzialmente nella estensione del controllo delle fondazioni bancarie a gran parte del sistema e, più specificamente, a quasi tutte le banche di maggiore dimensione. Ma c’è dell’altro. Coerentemente con la loro natura, la loro cultura, la loro storia di relazione col potere politico – un tempo nazionale, ora prevalentemente locale –, le fondazioni hanno esteso la loro presenza nel sistema bancario con un fine che molto poco ha a che fare con la competizione, il mercato, la ricerca dell’efficienza. Il loro scopo prioritario, infatti, sembra essere quello di una reciproca collaborazione volta alla conservazione del loro ruolo e del loro potere, salvaguardando i management delle loro banche, conservando quindi strutture e metodi organizzativi del passato, e difendendosi dalla possibilità che altri, nazionali o stranieri, si intromettessero contrastando o minacciando il compimento dei loro disegni. Il processo di aggregazione del quale sono state protagoniste, infatti, ha avuto un carattere eminentemente finanziario. Le banche sono state raggruppate in holding che ne custodiscono le quote di controllo rendendone più ardua la contendibilità. Ma ogni azienda che ne fa parte ha mantenuto la sua autonomia, i suoi organi di gestione, le sue specificità di missione, la sua cultura. Le implicazioni operative sul piano della specializzazione, dell’efficienza economica, del riassetto delle reti, delle strategie per il futuro sono state scarse o nulle. Non mancano casi nei quali una fondazione, acquisito il controllo di una banca, non si è data carico dopo ben sei mesi di stabilire almeno un primo contatto con il suo management.

E tuttavia non si può neppure dire che tutto sia rimasto come prima. Proprio perché il loro scopo era quello di “far corpo”, le fondazioni si sono associate tra loro ed hanno tessuto alleanze, anche in più direzioni, per conquistare il controllo ora di questa, ora di quella banca realizzando un intreccio di partecipazioni e di cointeressenze all’interno del quale decine di banche, pur autonome con il loro marchio ed il loro management, si ritrovano tra loro legate da connessioni proprietarie dirette o indirette, e contano nel proprio consiglio di amministrazione consiglieri in comune con altre banche o holding bancarie.

Che in un sistema siffatto la concorrenza difetti è cosa, dunque, che non può e non deve sorprendere. Come non deve sorprendere che, per altri versi, invece, la concorrenza vi sia. Viene dalle banche rimaste estranee a questi raggruppamenti, quasi tutte medie o piccole, ma il più delle volte solide ed aggressive, alcune delle quali si espandono sottraendo quote di mercato a quelle grandi, burocratizzate ed “impigrite” nella serra di qualche holding per la quale, come abbiamo visto, gli obiettivi di mercato e di competizione non sono ai primi posti della lista degli impegni. Ma il peso di queste banche è relativo; lo è sia in rapporto alla dimensione complessiva del mercato bancario italiano, in quanto solitamente operano in ambiti geograficamente circoscritti, sia soprattutto in relazione alla loro missione, che non è e non può essere quella di soddisfare l’esigenza che l’economia italiana ha di essere assistita in tutto il mondo da banche italiane con la dimensione patrimoniale e la capacità professionale per operare sinergicamente in ogni scacchiere geografico con le imprese che vi producono, vi esportano, vi stabiliscono joint-venture o vi acquistano aziende. Insomma, si parla di quelle due o tre grandi banche – grandi col metro inglese, o tedesco – delle quali si avverte l’esigenza da quando gli scenari operativi sono diventati globali e da quando la lira ed altre dieci monete dell’Unione europea sono state sostituite dall’euro. Di banche siffatte non ne sono ancora nate: concentrazioni finanziarie si; ma banche che operativamente abbiano raggiunto quella dimensione patrimoniale ed operativa no.

Se la concorrenza difetta, se manca quasi del tutto la proiezione globale, se le banche continuano ad offrire uno dei più fertili terreni per la semina e la coltivazione delle polemiche non è, dunque, per le capacità o la volontà di chi le guida operativamente, ma per l’assetto proprietario che si è determinato in seguito all’applicazione della legge Amato ed al processo di privatizzazione delle banche controllate dallo Stato. Forse la procedura seguita, basata sulle fondazioni, non aveva alternative in un Paese che in pochi anni ha dovuto liberalizzare e privatizzare ciò che altri Paesi avevano liberalizzato e privatizzato nell’arco di diversi decenni. Fatto sta, però, che essa non ha portato ancora ad assetti in grado di generare, attraverso la concorrenza appunto, quella ricerca di una efficienza sempre maggiore che a sua volta possa positivamente ricadere sulle imprese, sulle famiglie, sull’intero sistema economico. La competizione nasce da uno stato di necessità determinato dall’ambiente operativo nel quale si sia costretti ad operare; non basta che su uno stesso mercato operino più operatori, ma occorre altresì che ciascuno di questi abbia interesse a ridurre la quota di mercato degli altri, ad appropriarsi del loro potenziale di profittabilità, fino a spingerli nei casi più estremi ad abbandonare. La concorrenza, quella vera, è una lotta che può diventare mortale; che deve diventarlo perché solo a questa condizione possono prevalere i concorrenti più capaci di organizzare con maggiore efficienza la produzione, di percepire più tempestivamente l’orientamento della domanda, e di soddisfarla con il migliore rapporto tra prezzo e qualità. La dove lo scontro è provocato da una banca indipendente aggressiva questo genere di competizione può anche innescarsi: i contendenti finiscono per dividersi in vinti e vincitori, e sulla clientela finiscono per ricadere apprezzabili benefici. Ma nei casi ben più frequenti nei quali il confronto è tra banche che fanno parte del tessuto di intrecci azionari, partecipazioni incrociate, alleanze dirette e trasversali non ci si può aspettare che i contendenti giungano, anche quando potrebbero, a farsi reciprocamente del male.

Ecco perché la transizione del sistema bancario italiano non può essere considerata conclusa. L’assetto attuale, seppure dettato dalle ragioni che abbiamo richiamato, deve ora evolvere nella direzione di una separazione sempre più netta e chiara tra i gruppi proprietari sia delle holding che delle singole aziende bancarie in modo che ciascuna sia espressione di interessi proprietari del tutto distinti e tra loro contrapposti. È una direzione verso la quale dirigono non solo la legge che mira a spingere l’impegno delle fondazioni verso settori diversi da quello bancario, ma anche l’ordinamento europeo sulla concorrenza, il quale si va vieppiù ampliando fino a limitare fortemente la comunanza di amministratori tra banche che dovrebbero essere in concorrenza tra loro. Di strada da fare, in definitiva, ce n’è ancora molta.

Fonte: 28 novembre 2000

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