• domenica , 22 Dicembre 2024

Aumentare la spesa pubblica per ridurre il debito non e’ un controsenso

Aumentare la spesa pubblica per ridurre il debito? Sembra un controsenso, oltre che una bestemmia contro il “vangelo” del risanamento predicato dall’Europa e da molti economisti. Ma in economia non sempre il “comune buon senso” è il metodo più adatto a risolvere situazioni difficili. E ora un esercizio econometrico fatto da alcuni ricercatori del Fondo monetario internazionale mostra che sarebbe ora di andare controsenso, ovvero contro quello che oggi è il modo di affrontare la crisi.
Estate 2007. In America esplode la bolla immobiliare e fa deflagrare una crisi che viene da lontano, da tante idee sbagliate che hanno fatto andare l’economia verso il disastro. Non solo l’economia americana, perché quelle idee sono diventate egemoni in una gran parte del mondo e hanno condizionato il modello di sviluppo degli ultimi trent’anni. E infatti la crisi si espande a macchia d’olio, coinvolge buona parte del pianeta e soprattutto l’Europa.
Oggi i dati congiunturali ci dicono che per l’Europa la crisi non finirà neppure nel sesto anno, anzi, indicano un peggioramento. Nel frattempo gli Stati Uniti, origine ed epicentro della crisi, non hanno superato tutti i problemi: però la disoccupazione è in calo rispetto ai picchi peggiori, 7,9% a fronte di 10, mentre da noi continua a crescere e si avvia al 12%. E mentre il Pil dell’Europa nel 2012 è sceso dello 0,5% (ma nell’ultimo trimestre il calo su base annua è stato dello 0,9), quello americano mostra un non straordinario ma confortante + 2,2%.
Come mai? Sono ancora una volta le idee a fare la differenza, perché la crisi è stata ed è affrontata in modo molto diverso tra l’una e l’altra sponda dell’Atlantico. Là sostegno all’economia, anche a costo di aumentare ancora un debito pubblico già stratosferico, superiore a quello aggregato dell’Unione europea. Qui austerity, il “mettere ordine in casa” imposto dalla Germania e i suoi alleati, che significa tagli – spesso feroci – ai bilanci pubblici e riduzione dei salari, mentre Obama ha appena annunciato un aumento del salario minimo legale.
Ma, si potrebbe obiettare, gli squilibri vanno corretti: troppo alti i debiti pubblici di molti Stati europei, troppo alte – in relazione alla competitività – le retribuzioni dei lavoratori, che dunque debbono scendere finché quella non sarà riconquistata. Troppo alte le tasse in Europa, soffocano la crescita e dunque vanno ridotte; ma, visti i debiti accumulati, per farlo bisogna tagliare ancora di più le spese degli Stati. Sembra un discorso di buon senso, e invece non lo è: è la realtà che si incarica di dirci che è sbagliato. Le teorie economiche, se falliscono nel descrivere la realtà, si degradano in ideologie. E il vero buon senso starebbe nel prenderne atto e cominciare a seguirne altre, come un numero sempre maggiore di economisti sostiene.
Il problema è continentale, dovrebbe essere l’Europa – con il sostegno dei paesi che registrano forti attivi della bilancia del pagamenti, Olanda e Germania innanzitutto – a rilanciare la domanda per far ripartire l’economia. Ma, preso atto di questo, è una e una sola la politica economica che l’Italia può seguire, oppure c’è un’alternativa? La risposta è cruciale, e si può formulare anche in un altro modo: è vero che il prossimo governo, di qualunque colore sia, non ha che una strada da seguire, quella imboccata da Mario Monti?
Ebbene, lo studio di cui si parlava all’inizio afferma che non è vero. Non solo si potrebbe cambiare, ma si dovrebbe: la strada dei tagli di spesa porta solo nuova recessione, dunque aumento del rapporto debito/Pil (visto che quest’ultimo diminuisce) e dunque necessità di nuovi tagli per far quadrare i conti: un circolo vizioso che finirà per uccidere l’economia.
L’alternativa è più spesa pubblica. Non riduzione delle tasse: quella si potrà e si dovrà fare, ma a tempo debito, non ora. Ridurre le tasse significa dare più soldi in mano alle famiglie. Quelle che “non arrivano a fine mese” certamente li spenderanno, ma tutti gli altri non li spenderanno tutti, specie in questa situazione di incertezza: chiunque può ne metterà il più possibile da parte per fronteggiare un futuro fosco. Ciò significa che non li farà circolare nell’economia, e dunque l’effetto dell’iniezione di liquidità ne sarà ridotto, vanificando in parte la manovra. La spesa pubblica, invece, va interamente all’economia, per produrre l’effetto anti-ciclico desiderato. Ovviamente dev’essere una “buona” spesa, orientata ai settori che facciano da volano e gestita con appalti rigorosi e trasparenti. Questo significa niente tagli? No, gli sprechi vanno tagliati; ma il ricavato non deve essere usato per ridurre le tasse o il debito, deve essere speso.
E qui torniamo allo studio dei ricercatori Fmi (Nicoletta Batini, Giovanni Callegari e Giovanni Melina, “Successful Austerity in the United States, Europe and Japan”). Uno dei cui risultati più rilevanti è appunto che, in una fase di recessione, l’aumento della spesa pubblica genera un aumento del Pil più elevato di quanto nuove tasse lo facciano ridurre. Inoltre sappiamo da un altro studio (del capo economista del Fondo, Olivier Blanchard, con Daniel Leigh) che, quando la recessione è forte, i tagli di spesa fanno scendere il Pil in misura più che proporzionale (per ogni 100 di tagli il Pil può scendere anche di 170). Dunque, se si vuole mantenere il deficit invariato, aumentare le tasse per fare investimenti pubblici genera crescita, tagliare in pari misura tasse e spesa genera recessione (e quindi il circolo vizioso…).
Gustavo Piga, economista di Tor Vergata che da tempo sostiene questa tesi, ha chiesto ai tre del Fondo di utilizzare il loro modello per una simulazione sull’Italia: che cosa accadrebbe, se si aumentasse la spesa a parità di saldo primario, al rapporto debito/Pil, che è quello che conta per gli accordi europei? I tre hanno accettato e la simulazione è stata fatta ipotizzando varie percentuali di aumento di spesa, da uno molto piccolo (0,5%) a uno massiccio (5%). I risultati sono piuttosto clamorosi come si può vedere da questo grafico.
La linea blu mostra gli effetti della manovra più leggera, le altre di quelle via via più consistenti: la linea viola corrisponde a una manovra del 5%. I numeri in alto in orizzontale indicano i quadrimestri (20 quadrimestri = 5 anni). La manovra è stata ipotizzata in una situazione di netta recessione (Pil negativo per tre trimestri: il nostro è negativo già da 18 mesi consecutivi). Come si vede, con le manovre leggere la situazione migliora, ma di poco: sempre meglio comunque di quanto, secondo le previsioni ufficiali, dovrebbe avvenire in base all’attuale politica. Con quelle più decise, invece, il miglioramento è stupefacente: se si applica quella da 5% alla fine dei cinque anni il rapporto debito/Pil precipita di quasi il 35%. Sarebbe a dire che si passerebbe dall’attuale 126% all’84%!
Magnifico. Ma dove trova Piga questi soldi da spendere, vuole aumentare ancora le tasse? Per fortuna no. L’economista (che è tra l’altro fra i fondatori di un nuovo movimento politico, “I viaggiatori in movimento”) spiega che basterebbe mettere in opera una piattaforma unica da cui far passare i dati di tutti gli appalti per risparmiare 50 miliardi l’anno, circa il 3% del Pil. Piga non parla per sentito dire: è stato presidente della Consip, l’organismo per gli acquisti accentrati della pubblica amministrazione che ha fatto risparmiare decine di miliardi. Avrebbe dovuto essere potenziato, invece i governi Berlusconi hanno fatto il contrario.
Cinquanta miliardi: una cifra che, guarda un po’, corrisponde a quella da trovare, ogni anno e per i prossimi dieci-quindici anni, per rispettare gli obiettivi del “fiscal compact”, l’accordo europeo per la riduzione del rapporto debito/Pil. Attenzione: del rapporto, non necessariamente del debito in cifra assoluta. E dunque quella cifra può essere di tagli, ma così si ricade nel circolo vizioso che alimenta la recessione; oppure di spesa per rilanciare l’economia, come sostiene Piga e come i risultati dell’esercizio Fmi suggerirebbero di fare senza indugio. Vincerà il “vero” buon senso o l’ideologia?

Fonte: Repubblica del 1 marzo 2013

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