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Art 18 quanto costa un diritto

Due diversi esercizi matematico-statistici che utilizzano i dati fornitimi da InfoCamere confermano che l’eventuale effetto sulla dimensione delle imprese della norma sui licenziamenti è trascurabile. Una riprova che il problema non è economico, ma politico

Quello che ho scritto sull’articolo 18 (i dati sulla distribuzione delle imprese per numero di dipendenti) ha generato uno scambio di corrispondenza con due italiani che lavorano all’estero, Luca Amendola, che insegna all’università di Heidelberg, e Luca Ferretti, esperto di modelli e analisi dati che attualmente lavora a Parigi. Non sono economisti, ma hanno utilizzato i dati che InfoCamere mi aveva fornito per il mio articolo per calcolare, con metodi matematico-statistici, se vi sia uno scostamento dall’ipotetito trend di base nell’andamento della dimensione delle imprese rispetto al numero di dipendenti dopo la soglia di 15 che segna lo spartiacque per l’applicazione di quella norma dello Statuto dei lavoratori. In parole più semplici, hanno stimato l’effetto teorico di quella normativa.

Nella lettura di questi dati bisogna tener conto di numerose avvertenze, ma ne parleremo più avanti. Per il momento fingiamo che con queste metodologie si possa effettivamente stimare quanto influisce l’articolo 18 sulle decisioni delle imprese di assumere o meno uno o più dipendenti, e dunque capire quanto costa questa normativa e quanto possa essere opportuna – dal punto di vista economico e dell’occupazione – la sua abolizione.

Amendola, in uno studio ancora non pubblicato, usa una metodologia molto complessa di cui personalmente non capisco nulla, e dunque la prendo per buona sulla fiducia. Ne risulta che la soglia dei 15 dipendenti influenzerebbe il 2,5% delle imprese dell’intervallo 10-20 dipendenti (l’area in grigio nel grafico qui sotto). Ferretti ha usato i dati per elaborare un grafico in scala logaritmica, da cui risulta che l’influenza riguarderebbe l’1,25% delle imprese (la differenza rispetto alla linea retta rossa nel secondo grafico).

Stime influenza art. 18

Stiamo ipotizzando che quello scostamento rispetto all’ipotetico andamento “normale” sia dovuto all’articolo 18, ma questo non è affatto scontato. Una correlazione tra due variabili non implica necessariamente una causalità, cioè non è detto che sia proprio quella presa in considerazione ad incidere sull’andamento dell’altra. C’è un divertente sito americano che colleziona queste correlazioni spurie, cioè sballate. Ecco due esempi.

Correlazione spuria 1
Correlazione spuria 2

Il primo mette in relazione il numero di dottorati in sociologia negli Usa con i lanci spaziali; il secondo, che mostra una “forza” della correlazione addirittura del 99%, il tasso di divorzi nel Maine con il consumo di margarina. Come si vede, bisogna stare attenti ad attribuire un rapporto di causalità a dati che sembrano avere lo stesso andamento.

Insomma, questa legge rappresenta un costo, ma un costo davvero minimo, se l’effetto si aggira tra l’1,25 e il 2,5%. D’altronde, come ha brillantemente intuito il finanziere renziano Davide Serra nelle sue esternazioni alla Leopolda, “un diritto è anche un costo”. E’ vero, e costa certamente più dell’articolo 18 il diritto alla tutela della salute sul posto di lavoro, e forse ancora di più costano le norme anti-inquinamento, cioè il diritto (questo di tutti, non solo dei lavoratori) che la produzione non danneggi l’ambiente. Infatti i costi dei paesi di recente industrializzazione sono così bassi non solo per i salari, ma anche perché non si curano affatto del rispetto di questi altri diritti. Li inseguiremo anche su questa strada, in nome della riconquista della competitività? Tutte norme di quando non c’era l’i-pad, e perciò da rottamare?

Senza contare che prima di continuare ad accanirsi contro l’articolo 18 (o meglio, contro quel che ne rimane dopo la pesante modifica della legge Fornero) si dovrebbero considerare una serie di altri problemi. Osserva Luca Ferretti: “E’ facile pontificare e fare calcoli su questi piccoli effetti diretti dell’articolo 18, ma molto più difficile stimare come cambierebbe qualitativamente il mercato del lavoro facilitando i licenziamenti. Aumenterebbero le produzioni a basso valore aggiunto? Aumenterebbero veramente gli occupati? Diminuirebbero ancora gli stipendi? E le entrate fiscali e pensionistiche? E i problemi di salute fisica e mentale, nonché di efficienza sul lavoro, legati alla precarietà? Questi cambiamenti potrebbero avere effetti molto maggiori, ma difficili da predire, misurare o calcolare, e quindi vengono ignorati”.

Vengono ignorati non solo per la difficoltà di calcolarli, ma anche perché questa battaglia, come abbiamo visto una volta di più, ha un significato economico trascurabile, ma ne ha uno politico e simbolico molto grande. L’abolizione significa far capire “chi comanda”, significa umiliare i sindacati (come fecero, all’inizio del loro mandato, Ronald Reagan con i controllori di volo e Margaret Thatcher con i minatori), signifca dare mano libera nella gestione delle imprese: “Attenti voi, che posso licenziarvi quando voglio”.

Che questo sia diventato un obiettivo di un partito che dovrebbe essere progressista, è davvero difficile da capire.

Fonte: Repubblica.it - 16 ottobre 2014

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