A costo di apparire ruvidi una cosa va detta subito: con l’insediamento di Mario Draghi i membri del Direttorio della Banca d’Italia dovrebbero mettere a disposizione il loro mandato. A motivare una simile decisione sarebbe bene che fossero considerazioni di carattere autocritico: nei lunghi mesi della «crisi Fazio», che ha ridotto al minimo la reputazione della banca, dai membri del Direttorio non è venuta né una parola né un gesto. Ma anche non volendo prendere in esame l’opportunità etica i membri del Direttorio dovrebbero dichiararsi a favore del ricambio perché nel frattempo è cambiata la legge e di conseguenza la missione dell’organismo di cui erano stati chiamati a far parte. Va da sé che un analogo esercizio di educazione istituzionale sarebbe apprezzabile venisse anche dai membri del Consiglio Superiore della banca, un organismo che a giudizio di molti non ha più alcun senso di esistere ma che è stato riconfermato dalla nuova legge. Un rapido avvicendamento dei consiglieri è quindi l’unica novità che ci si può attendere e insieme auspicare. A palazzo Koch c’è bisogno di aria fresca.
Al netto infatti di tutti gli avvenimenti connessi, dall’intervento della magistratura al lacerante dibattito sulla finanza rossa, l’episodio che caratterizza e sintetizza le convulse vicende di questi mesi è proprio la staffetta Fazio- Draghi, la sconfitta di una linea neo-protezionistica e l’affermarsi di un orientamento favorevole al mercato e alla concorrenza. E il grande tema sul quale appassionarsi, e se è il caso dividersi, è proprio questo: come l’Italia debba riprendere il suo cammino di integrazione reale con l’Europa e come questo processo debba essere governato. Draghi è il simbolo di una stagione che fu caratterizzata dalla rinuncia alla tattica del catenaccio. Negli anni Novanta le nostre élite della politica e dell’amministrazione furono capaci di mettere all’ordine del giorno la riduzione della soffocante presenza dello Stato nell’economia. Privatizzarono con velocità e profondità seconde in Europa forse solo all’esperienza inglese, commisero anche degli errori ma riuscirono ad avviare la riforma dell’economia. Ora si tratta in campo bancario sicuramente quello centrale di riprendere quel cammino, di fare della contendibilità delle aziende lo strumento per obbligare il sistema a essere competitivo. Contrapponendo agli stranieri due soggetti con struttura proprietaria chiusa, come una banca popolare e un’assicurazione controllata dalle Coop, Fazio ha mostrato in quanto poco conto tenesse la contendibilità.
Per perseguire la nuova strada Draghi dovrà affrontare nodi complessi si pensi al ruolo delle Fondazioni bancarie che controllano buona parte del sistema creditizio e sono soggetti non contendibili anch’essi e troverà inevitabilmente degli ostacoli. Dovrà con tutta probabilità porsi il compito di innovare il tradizionale ruolo di supervisione di Bankitalia: non più limitata al controllo dei ratio ma estesa, in collaborazione con la Consob, a sorvegliare l’evoluzione della governance. Perché se a Lodi ci fosse stato un vero CdA e non una combriccola di sodali, Fiorani non avrebbe potuto fare il bello e il cattivo tempo. Infine, un contributo di discontinuità la nuova Banca d’Italia potrà darlo anche in termini di riduzione del debito pubblico. Novantasette filiali locali, più di 8 mila dipendenti, un patrimonio immobiliare per 4,8 miliardi di euro che può tranquillamente essere messo in vendita, un regime di stipendi e pensioni intriso di privilegi sono anomalie che vanno corrette. Lo si può fare in tempi tutto sommato brevi.
Fonte: "Corriere della Sera" del 17 gennaio 2006