Un recente saggio della collana Arel-Il Mulino (Giovani senza futuro? Proposte per una nuova politica) a cura di due importanti studiosi di uno dei think thank vicini al Pd, come Carlo DellAringa e Tiziano Treu, tra i differenti aspetti interessanti, contribuisce con obbiettività a ristabilire alcuni elementi di verità tra i tanti luoghi comuni presenti nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro.
Prima ancora di commentare alcune parti del saggio (vi sono raccolti gli scritti di diversi autori) è in caso di svolgere alcune considerazioni sullandamento del negoziato in corso che sembra aver smarrito il bandolo della matassa, oscillando di volta in volta verso la prospettiva annunciata di cambiamenti epocali per regredire, poi, a livello di promesse a causa della mancanza di risorse. Ma ciò che più preoccupa è un altro profilo del negoziato: ammesso che giunga in porto che cosa avverrà al mercato del lavoro? Vi sarà complessivamente più flessibilità o si determinerà un maggiore rigidità?
Il confronto con le parti sociali presenta degli aspetti di ambiguità e di rischio che vanno denunciati. Il mercato del lavoro soffre sicuramente di un dualismo iniquo: tutta la flessibilità necessaria a garantire un minimo di efficienza del sistema produttivo grava sulle giovani generazioni, nel senso che i datori si avvalgono, in caso di assunzione, di tutti gli strumenti contrattuali a disposizione, allo scopo di sottrarsi, al momento della risoluzione del rapporto, di una disciplina troppo rigida in materia di licenziamento, aggravata dagli oneri derivanti da un contenzioso giudiziario troppo lungo e di esito imprevedibile. Tale situazione, però, può essere modificata ad una precisa condizione: che si arrivi ad una riforma equilibrata dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. In caso contrario, se prevalessero le posizioni dei sindacati (quanto meno della Cgil che da sola condiziona tutto il quadro politico) il risultato non sarebbe quello di un mercato del lavoro complessivamente meno rigido ma più giusto; si determinerebbe, invece, una ulteriore ingessatura, con ricadute negative sulle imprese e sulla stessa occupazione, perché, fino a prova contraria, nessun datore può essere costretto ad assumere secondo regole da lui ritenute proibitive.
Potrà non piacere, ma oggi le imprese per le quali vale la regola del primum vivere sono in grado di eludere leccessiva rigidità in uscita dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, avvalendosi di una forma consentita di flessibilità in entrata. Se questa
I “cattivi maestri” teorizzano che la precarietà è l’emergenza del Paese. Dimenticano che il nostro primato negativo si chiama disoccupazione. E a questo punto torniamo al saggio dellArel, dove, proprio nellintroduzione a loro firma i due curatori riconoscono gli effetti determinati da una legislazione del lavoro più flessibile (dal pacchetto Treu alla legge Biagi).
Anche una parte della sinistra sa che il mercato del lavoro così com’è è iniquo
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