La barbara aggressione dell’Ucraina da parte della Russia ha suscitato unanime condanna e il sostegno dell’Occidente all’eroica resistenza del popolo ucraino non solo con parole di solidarietà ma con aiuti di ogni tipo, inclusi quelli militari. In questo conflitto, all’osservazione sul campo, risulta evidente chi sia l’aggressore e chi sia l’aggredito, ed è altrettanto evidente che, qual che sia la minaccia percepita dall’aggressore come motivo del conflitto, il casus belli risulti del tutto inconsistente. La Russia dispone, in realtà, di forze militari di gran lunga soverchianti rispetto all’avversario come rispetto al resto dell’Europa, ha un’economia più grande e più prospera di quella ucraina, gode di una quasi invulnerabilità geografica dovuta all’estensione del suo territorio, essendo il paese più grande del mondo, e mostra grande determinazione della sua gente a difenderne l’integrità, come testimonia l’esperienza storica degli ultimi secoli. Inoltre, al mondo di oggi qualsiasi controversia tra un grande paese e uno minore potrebbe risolversi con una paziente negoziazione e un’azione volta a creare reciproca fiducia, piuttosto che con minacce militari ed atteggiamenti minacciosi di grande potenza.
Nondimeno, queste semplici costatazioni non bastano a taluni per condividere la necessità di aiutare l’aggredito a resistere, perché trovano motivi per sostenere la posizione dell’aggressore, oppure ritengono che per fare terminare le ostilità e le sofferenze della guerra occorra tra l’altro non aiutare militarmente l’aggredito. Quest’ultima è la posizione espressa da uno scienziato e saggista italiano molto noto, che sostiene che inviare armi equivalga a far continuare morte e devastazione. Ritiene, infatti, che non si debba cadere nella logica “di rispondere alla violenza fomentando la violenza”.
Una simile valutazione fatta da un noto scienziato colpisce l’attenzione ed induce a interrogarsi su quanto sia credibile e realistico questo atteggiamento. In particolare, il pacifismo ad oltranza di costoro quale probabilità ha di condurre alla pace attraverso negoziati “aperti e concessioni reciproche”, come sostengono? Chi ha una buona conoscenza della storia europea e dell’anima profonda dei governanti russi di ieri, di oggi e probabilmente anche di domani non esiterebbe a dare una risposta negativa a questi quesiti.
Non è necessario richiamare il famoso principio di epoca romana “Si vis pacem para bellum” per argomentare la scarsa credibilità di quell’aspettativa. Non è difficile, in primo luogo, vedere le analogie tra la logica di Putin e le sue azioni militari, e quelle dell’URSS dopo Stalin e di Hitler nel 1938-1939. Nei paesi occupati dai sovietici durante la Seconda guerra mondiale, Mosca non esitò a reprimere con i carri armati, le purghe o le minacce d’invasione ogni tentativo di autonomia di quei popoli. Lo fece nelle rivolte in Germania Est nel 1953, in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 e in Polonia nel 1981. Ancor prima, negli anni 30 dello scorso secolo il dittatore nazista della Germania occupò in successione l’Austria e i Sudeti nel 1938, quindi la Cecoslovacchia nel 1939, prima di procedere con l’invasione della Polonia nello stesso anno. L’acquiescenza del Regno Unito e della Francia all’espansionismo nazista, culminata col Trattato di Monaco del 1938, non allontanò le prospettive di guerra, ma le avvicinò.
In secondo luogo, da quando Putin è al potere, la Russia ha esteso il suo controllo su una parte della Moldavia, su aree della Georgia, sulla Crimea, quindi sul Donbass e ora rivendica l’occupazione dell’intera Ucraina. A detta degli americani, ha inoltre violato per anni il trattato INT di limitazione delle forze nucleari intermedie in Europa, inducendo gli USA a ritirarsi dal Trattato, con la conseguenza di creare una situazione di maggiore insicurezza. Nel 2007 ha, altresì, sospeso la partecipazione al Trattato CFE sulla riduzione e limitazione delle armi convenzionali in Europa, lasciando anche nel limbo l’impegno collaterale a non concentrare le forze in prossimità delle zone confinanti (Flank Agreements).
Da ultimo, in alcune dichiarazioni pubbliche all’inizio della campagna militare Putin ha affermato che l’Ucraina fa parte integrante della cultura russa e della sua storia e quindi si tratta di portare a compimento il suo ritorno nel seno della sua patria russa. Ha pure espresso intenti espansionistici verso le repubbliche baltiche e ricordato che la Russia non ha sottoscritto il trattato sulla riunificazione della Germania. Ce n’è abbastanza per arguire il disegno putiniano di ricostruire in nuove forme le zone d’influenza dell’URSS nel periodo del Patto di Varsavia. Traspare un salto a ritroso nella storia, ossia a una visione da guerra fredda di epoca sovietica, che in Occidente si riteneva superata dopo oltre 30 anni dal crollo del Muro di Berlino.
Quanti attribuiscono all’Europa parte della responsabilità della guerra in Ucraina adducono anche due motivazioni: 1) i paesi della Nato hanno rifiutato di impegnarsi a respingere la richiesta ucraina di adesione all’alleanza, che quindi può estendersi fino ai confini con la Russia; e 2) le operazioni militari russe in questo paese sono comparabili nella condanna a quelle della NATO nel Kosovo, in Libia, Iraq e Afganistan.
Sul primo punto, si dimentica che entrambi NATO e UE da anni non hanno dato seguito alla domanda ucraina per non urtare la suscettibilità di Mosca, benché quella domanda scaturisse dal crescente senso di insicurezza provato da quel paese di fronte all’aggressività russa nei confronti di territori appartenuti un tempo all’Unione Sovietica. Insicurezza dovuta anche alla dichiarazione di Putin di non considerare più valido l’accordo di Budapest (il Memorandum di Budapest), con il quale nel 1994 la Russia congiuntamente con USA e RU garantivano l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina in cambio della rinuncia all’arsenale nucleare ereditato dal dissolvimento dell’URSS, che era il terzo più grande del mondo. Quell’accordo è stato violato nel 2014 con l’invasione della Crimea, a cui americani ed europei hanno reagito con sanzioni decisamente blande. Ancora una volta nella storia europea la sostanziale acquiescenza degli occidentali ha rinvigorito gli appetiti di dominio dell’aggressore e lo ha convinto di poter riprendere ad avanzare all’ovest, come sta avvenendo attualmente.
In realtà, la giustificazione più forte per l’aiuto occidentale alla resistenza ucraina risiede nella considerazione che stanno combattendo una guerra non solo per la loro indipendenza, ma per fermare l’espansionismo russo verso l’Europa. In altri termini, combattono per la sicurezza europea e per affermare i principi della convivenza pacifica tra le nazioni, che dal secondo dopoguerra mondiale sono alla base dell’ordine europeo.
È, invece, inconsistente l’argomentare di Putin secondo cui, se l’Ucraina aderisse alla NATO, le sue forze arriverebbero ai confini della Russia, perché l’Alleanza sta già ai suoi confini con i paesi baltici, né ha mai mostrato intenti ostili per l’attraversamento nei loro territori del corridoio di accesso a Kaliningrad. Ma Putin giudica l’Alleanza un’organizzazione offensiva, mentre ha essenzialmente carattere difensivo al punto da consentire ai paesi europei di contare sul suo ombrello per sottodimensionare le spese per armamenti. Nel 2019, anno precedente la recessione del 2020, secondo le stime del SIPRI, solo in 6 paesi dell’ex-Comecon, nel RU e in Grecia la spesa militare raggiungeva il 2% del PIL, mentre negli altri era inferiore, a fronte del 3,8% della Russia, aumentato al 4,3% nel 2020. Né si possono considerare come offensive le operazioni condotte dalla NATO negli anni 90 e seguenti, perché nel secondo conflitto iracheno non intervenne la NATO ma una coalizione a guida americana, lo stesso avvenne in Libia con la caduta di Gheddafi, in Kossovo si trattò di fermare il genocidio della popolazione da parte della Serbia e in Afganistan la NATO intervenne per difendere un paese alleato che era stato attaccato proditoriamente da un’organizzazione terroristica sostenuta dal governo talebano.
Non sembra nemmeno applicabile il criterio interpretativo adottato da un fine storico dell’antichità per giudicare l’invasione dell’Attica da parte di Sparta nel 431 a.C.. Secondo Tucidide, la responsabilità della Guerra del Peloponneso era da attribuirsi a entrambe le parti in guerra, Sparta ed Atene, in quanto lo sviluppo dell’impero ateniese era percepito come una minaccia dagli spartani. Nel caso ucraino, invece, è una grande potenza che aggredisce ed invade un paese minore, che non è in grado di rappresentare una vera minaccia.
Resta da considerare l’argomento di Putin sulle origini culturali e storiche dell’Ucraina come cuore della Russia. Il paese fu conquistato dai russi con la vittoria di Pietro il Grande sugli svedesi di Carlo XII nella battaglia di Poltava del 1709. Ancor prima era dominato dai polacchi e costitutiva una propria entità con una sua lingua e le sue tradizioni. Durante il dominio russo non abbandonò le aspirazioni all’indipendenza, che solo in piccola parte si realizzarono con la Rivoluzione di Ottobre e la decisione di Lenin di farne una repubblica socialista nell’ambito dell’Unione Sovietica. L’indipendenza effettiva fu dichiarata dal suo popolo immediatamente dopo la dissoluzione dell’URSS, dando avvio alla prima esperienza di democrazia della sua storia. Gli ucraini hanno sempre insistito sulle loro diversità dalla Russia anche in termini di regime politico e si sono opposti alle frequenti interferenze della Russia di Putin nella sua politica interna ed estera. Sostenere, quindi, che il paese faccia parte del nucleo storico della Russia è smentito dalla storia a meno che il modello di riferimento per l’invasione attuale sia l’Impero Russo.
Quale sarà l’esito del conflitto in corso? Malgrado il grande squilibrio delle forze in campo a favore della Russia e nonostante i limitati aiuti militari occidentali, diversi scenari sono possibili. Un risultato, tuttavia, è chiaro fin d’ora: se Putin intendeva, tra l’altro, proteggere meglio i suoi confini dal supposto pericolo della NATO, ha invece ottenuto l’opposto, ovvero la corsa dell’Europa occidentale e degli USA a potenziare considerevolmente i loro armamenti e a dislocare maggiormente le loro forze in funzione di contrasto alle avances russe.
(Formiche 20 marzo 2022)