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Altro che totem. L’art.18 e’ il vero problema ma il Jobs Act di Renzi lo ignora

Sono stato un piccolo imprenditore, un calzaturificio con 15 dipendenti”. E’ Vincenzo che scrive, da un piccolo paese delle Marche: ed è Giorgio Napolitano che gli dà voce, è la prima delle lettere da cui ha preso le mosse nel suo discorso di Capodanno, per ricordare la drammatica situazione dei disoccupati. Non voglio in alcun modo attribuire al capo dello stato intenzioni recondite, né suggerirne un’interpretazione. Ma è un fatto che la lettera che egli ha scelto descrive non solo la presente situazione di un 61enne che non trova un impiego, ma anche quella dell’azienda che ha dovuto chiudere: che aveva 15 persone, una in meno delle 16 che fanno scattare il famoso art. 18 sui licenziamenti.
Era il gennaio del 1997 quando presentai un disegno di legge per abolire l’art. 18, tecnicamente “disciplina del recesso da parte del datore di lavoro”: credo fosse la prima volta da parte di un parlamentare della sinistra.
Sono passati 17 anni, oggi sul tavolo c’è il Jobs Act di Matteo Renzi. Risolve il problema, oppure vuole solo schivarlo?
L’articolato del mio ddl riprendeva paro paro una proposta di Pietro Ichino: non costituisce illecito il licenziamento per giustificato motivo economico; questo non viene accertato dal giudice, ma dimostrato dalla disponibilità dell’azienda a pagare un’indennità di licenziamento crescente con l’età anagrafica e con quella aziendale. Il Jobs Act invece si ispira a un modello di Tito Boeri: c’è un unico contratto di lavoro, è a tempo indeterminato, ma con garanzie che crescono per gradini successivi, fino a raggiungere l’attuale rigidità. (Mi scuso con entrambi gli studiosi per la brutalità della sintesi). Risolve o schiva? Dipende dal significato che si dà all’art. 18. Questo non è un vecchio totem che segna confini superati dai tempi; non è vero che l’esiguità dei casi di reintegro ordinato dal giudice dimostri che abolirla è questione ideologica, come mi dicevano a suo tempo i meno virulenti dei miei oppositori. Non è vero che il “gradino” dei 15 dipendenti sia irrilevante per la struttura delle nostre industrie, che i casi dei tanti Vincenzi siano solo aneddoti, e irrilevante l’addensamento di aziende al disotto della soglia dei 15, come notano, regressioni alla mano, i più colti. L’art. 18 è la pietra angolare di una costruzione giuridica per cui il diritto al lavoro, anche se non immediatamente esigibile, diventa, per chi lo occupa, diritto al “suo” posto di lavoro.
Se è un diritto personale, sarà il giudice a decidere se può esserne privato. E’ l’art. 18 a essere ideologico, e l’ideologia è quella della job property. L’impresa svolge la sua “funzione sociale” consentendo di realizzare un diritto del cittadino, non è uno dei due contraenti di un contratto: questo non è un paese per i Ronald Coase. La riforma del mercato del lavoro incomincia con l’espungere alla radice il concetto di job property, non dal girarci intorno: infatti esso connota tutte le fasi del rapporto di lavoro, assunzione, gestione, risoluzione. Influenza ogni decisione imprenditoriale: infatti, se assumere un dipendente è un fatto irreversibile, il lavoro invece di fattore di produzione modulabile al variare delle condizioni del mercato, è un “rischio non assicurabile”; induce all’uso (e all’abuso) delle più svariate forme contrattuali, al ricorso all’outsourcing anche al di là di quanto sarebbe economicamente conveniente. Ha conseguenze per i Vincenzi che cercano di stare sotto i 15, e per le grandi aziende che sanno di poter ricorrere, all’occasione, alla chiusura di interi reparti e alla cassa integrazione.
E veniamo al secondo punto, la cassa integrazione usata in modo non congiunturale.
Anch’essa è figlia del concetto di job property, dunque dell’art. 18: il costo delle crisi prima è mutualizzato, poi scaricato sulla collettività, così ritardandone la soluzione.
E’ gradita a imprese e lavoratori, entrambi per cattive ragioni: verrà abolita? Si spendono miliardi per politiche del lavoro “passive”, cioè di puro e semplice sostegno del reddito dei disoccupati, senza alcuna condizionalità né alcuna misura di efficacia; mentre pochi e burocraticamente gestiti continuano a essere i soldi messi per una moderna politica di reinserimento. Molto interessante è il meccanismo del contratto di ricollocazione proposto da Pietro Ichino sulla base di quanto realizzato in Olanda, che mette in concorrenza agenzie pubbliche e private, pagate non a piè di lista, ma con una “success fee” e che consente di trovare il punto di equilibrio tra aspirazioni del candidato e tempo di reinserimento nel tessuto produttivo. Non c’è bisogno di riaffermare il principio (c’è già nella legge Fornero), bisogna dire concretamente come implementarlo.
Nelle norme sul lavoro sono già tanti i dettagli in cui il diavolo può nascondersi.
Che almeno non gli si offrano gli spazi per infilare la coda delle gelosie personali o dei malintesi patriottismi di partito.

Fonte: Il Foglio del 21 gennaio 2014

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