Il rapporto con dollaro e yen penalizza le esportazioni italiane. L’unico Stato che ha guadagnato è, guarda caso, la Germania.
Bollettino da Mosca, conclusioni del G20. Mano libera per tutti: dollaro, yen e sterlina procedano con le svalutazioni competitive. Noi no. L’euro sopravvalutato, a trazione tedesca, rimane come sempre fuori dal mondo, fuori dalla realtà. Senza una banca centrale degna di questo nome. Altro che spread! Per quasi due anni siamo corsi dietro questo maledetto differenziale, salvo accorgerci (ma poi negarlo) che la partita si stava giocando su un altro campo.
Le valute, l’euro troppo forte, la nostra inesistente politica monetaria. La perdita, per tutta l’Eurozona, di competitività e di appeal rispetto al resto del mondo. Per un intero decennio abbiamo vissuto in una bolla opportunistica in cui della moneta unica europea coglievamo solo i vantaggi di sistema. Senza curarci di come gli altri paesi avessero adottato svalutazioni competitive tali da collocare la moneta europea in una scomoda condizione di sopravvalutazione. Questo il gioco esterno. All’interno, tutti i paesi lucravano sull’euro, dal punto di vista dei bassi tassi di interesse, ma nessuno si rendeva conto della sua debolezza sistemica. Il bengodi dell’Eurozona è durato dall’introduzione della moneta unica nel 1999 fino a ottobre 2009, quando la crisi in Grecia ha svelato tutti i difetti della moneta unica.
Ci sono due storie, quindi, dell’euro. E una doppia debolezza. Quella interna «distributiva», fatta di svalutazioni competitive tra nord e sud, con il nord più forte che svaluta rispetto al sud più debole. E quella esterna, in cui il resto del mondo fa lo stesso gioco nei confronti dell’Eurozona. Se ci si fosse fermati a riflettere sulla genesi della crisi, probabilmente se ne sarebbero comprese le cause: la doppia debolezza. E la «cura» sarebbe stata appropriata ed efficace.
Invece no. A nessuno è saltato in mente di fare un’analisi seria e condivisa di quel che stava succedendo. La Germania ha dato la propria interpretazione e quella è diventata la dottrina dominante: «lo spread è alto, è colpa tua, fa i compiti a casa». Una teoria di matrice calvinista, cui nessuno ha replicato: né le istituzioni europee, né alcuno dei paesi dell’Unione. E che è stata accettata da tutti passivamente e acriticamente nell’Eurozona. Da qui misure di consolidamento dei conti pubblici che, però, come dice la miglior letteratura economica, implementate in periodi di crisi economica e finanziaria hanno effetti opposti a quelli sperati. E che non tenevano conto della sopravvalutazione della nostra moneta.
Si è andati avanti di questo passo per più di un anno e mezzo, con rendimenti dei titoli di Stato oltre il 6% in alcuni Stati dell’Unione, tra cui Italia e Spagna, e rendimenti al minimo storico, fino all’1% in altri paesi, come la Germania. Il 24 luglio 2012, nonostante le medicine amare somministrate, i differenziali erano agli stessi livelli di fine 2011. Un anno di cure, ma senza ottenere nulla.
È così che, anche vedendo come andavano le cose negli Usa, ci si è finalmente accorti che il problema era la doppia debolezza dell’euro. Per dare una risposta alla debolezza interna la Banca centrale è intervenuta, annunciando, con il presidente Mario Draghi, un piano di acquisti sul mercato secondario di titoli, con vita residua fino a 3 anni, del debito pubblico dei paesi sotto attacco speculativo. Et voilà, lo spread è sceso. Peccato, se lo avessimo capito un anno e mezzo prima, ora saremmo tutti più ricchi. E più felici. È bastata la minaccia della Bce di prendere in mano il bazooka e tutto si è risolto.
Ma nulla è stato fatto sulla fragilità dovuta ad eccesso di rigidità dal fronte esterno. Il Giappone, in recessione, ha sempre lottato con uno yen troppo forte e con il blocco, da parte degli Stati Uniti, di ogni tentativo di svalutazione, giustificato dal rischio di una crisi globale qualora si fosse intervenuti sullo yen. Ma da dicembre 2012 in Giappone c’è un nuovo governo, e il primo ministro, Shinzo Abe, ha annunciato un piano di stimolo del governo per 116 miliardi di dollari, finalizzato a un aumento del Pil di almeno 2 punti percentuali e alla creazione di 600.000 posti di lavoro, nonostante un rapporto deficit/Pil del paese oltre il 10% e un rapporto debito/Pil superiore al 220%. Risultato: svalutazione, di fatto, dello yen. Svalutazione neanche tanto implicita, dato che al piano del governo si aggiunge la politica monetaria espansiva della banca centrale giapponese, la Bank of Japan, che è già all’ottava tranche, dal 2010 a oggi, di quantitative easing, vale a dire l’acquisto massiccio sul mercato primario di titoli del debito pubblico (negli USA la Fed è ancora ferma al QE3).
Il primo che ha iniziato a riflettere sull’euro troppo forte è stato il premier francese François Hollande, secondo il quale occorre rilanciare le esportazioni dei paesi dell’Unione ed evitare che gli sforzi che si chiedono agli Stati per aumentare la competitività delle proprie economie vengano annientati dalla quotazione della moneta, che non rispecchia più la situazione reale dell’Eurozona.
Anche perché, lo storico rafforzamento dell’euro, che il primo febbraio ha raggiunto il massimo da novembre 2011, a quota 1,3711 rispetto al dollaro (nonché 126,97 rispetto allo yen: record da aprile 2010), è la causa strutturale del formarsi dei differenziali tra i paesi dell’Eurozona, ove alcuni registrano ampi surplus della bilancia commerciale, come la Germania, che ha chiuso il 2012 a +6,3%; mentre altri si sforzano per recuperare pesanti deficit per non incorrere nei meccanismi sanzionatori dell’UE.
E proprio la Germania, che basa oltre il 50% della sua crescita sulle esportazioni, è legata a doppio filo all’andamento dell’euro ed ha reagito per prima, negativamente, alle dichiarazioni di Hollande. Uno studio di Morgan Stanley dimostra che un cambio euro/dollaro sostenibile per tutti i paesi dell’Eurozona è 1,33, mentre l’economia tedesca può sopportare rialzi fino a 1,53; la Francia fino a 1,23 e l’Italia fino a 1,19. Livello massimo già ampiamente superato. Eppure in Italia nessuno ne parla. Nessuno ha commentato le dichiarazioni di Hollande, secondo cui «alcuni paesi usano i tassi di cambio per sostenere la loro crescita». Affermazione che assume carattere ancor più pesante se tra questi paesi si considerano non solo gli Stati Uniti e il Giappone ma anche la Cina e la Gran Bretagna, dove il nuovo governatore della Bank of England, Mark Carney, ha annunciato a breve decisioni di politica monetaria orientate ad un allentamento in chiave espansiva. Insomma, tutte le banche centrali mondiali sono in movimento. Da questa considerazione deve derivare il cambio della politica economica europea, al fine di adottare un modello più vicino a quello giapponese. E la strada non può essere che quella di ridiscutere fermamente una svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro e delle principali valute, con relativa reflazione dell’economia tedesca, pena il permanere della recessione nell’intera Eurozona.
Che dire allora? Abbiamo avuto l’ennesima conferma che in Europa i giochi si fanno a Francoforte. Con buona pace della cancelliera Merkel e del presidente Monti, che evidentemente non fanno parte della partita, nonostante le loro ambizioni.
Ne deriva che le oscillazioni degli spread delle ultime settimane erano più legate alla guerra monetaria che si stava combattendo tra le valute mondiali, piuttosto che alla risibile teoria che queste dipendessero dal ritorno sulla scena politica italiana di Berlusconi. Al G20 che si è tenuto a Mosca, i ministri delle Finanze e i banchieri centrali hanno parlato proprio della guerra delle monete. E quindi del conseguente rischio di una nuova implosione dell’euro.
Ma al nostro presidente del Consiglio, ancorché in carica per gli affari correnti, tutto questo non interessa più. È in campagna elettorale, tutto preoccupato a salvare la sua discutibile armata brancaleone del 10%. Continuando a vivere nella sua bolla di arrogante narcisismo. E il resto non lo tocca. Lasciamolo nella sua allucinata illusione ancora per una settimana. Game over.
Altro che spread. Il problema dell’Ue e’ l’euro troppo forte
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