di Franco Debenedetti
«La politica industriale è di nuovo in voga»: così Justus Haucap, professore di Economia ed esperto di concorrenza all’Università di Düsseldorf, inizia sul quotidiano tedesco Die Welt la sua analisi della proposta della francese Alstom e della tedesca Siemens di fondere le loro attività ferroviarie. L’idea di creare un campione europeo di taglia tale da tener testa alla cinese Crrc, il maggior produttore di veicoli ferroviari del mondo, è accarezzata da molti politici e suscita echi favorevoli in larghi strati dell’opinione pubblica.
Ma la Commissaria europea per la concorrenza Margrethe Vestager ha alzato bandiera rossa. Né può far diversamente: è un caso emblematico di fusione che riduce la concorrenza in Europa. Però alcuni settori della politica protestano: probabilmente gli stessi che applaudivano la Vestager, quando comminava multe miliardarie ai grandi della Silicon Valley, e Mario Monti, suo predecessore nel ruolo, quando aveva obbligato Microsoft a modificare Windows e impedito la fusione tra due aziende americane nelle apparecchiature di controllo per gli aerei, perché avrebbe ridotto la possibilità di scelta di Airbus. Quella che stiamo vivendo – sostengono – è una lotta tra continenti: se non vogliamo soccombere, le politiche, anche antitrust, devono adeguarsi, soprattutto quando gli altri non si fanno scrupoli nel sostenere i loro campioni nazionali con aiuti di Stato. Le deduzioni che ne traggono possono essere distinte in due filoni: il primo, che chiamerò attivo, per cui è necessario poter mettere in campo imprese di grandi dimensioni; il secondo, passivo, sulle misure per difendere quello che abbiamo.
Certo che la dimensione è un vantaggio strategico: ma è diverso se essa è frutto di crescita interna conquistata sul mercato, oppure se è risultato di una politica industriale che “sceglie i vincitori”. Incombe l’esempio del fallimento delle grandi imprese protagoniste delle politiche di piano. La storia delle nostre Partecipazioni statali è lì a dimostrare quanto fosse fondato l’ammonimento di Luigi Sturzo, che inevitabile conseguenza dei monopoli di Stato è la corruzione, giudiziaria, politica, morale. Negli Stati Uniti degli anni 80, l’idea che esistesse una tecnica unica per governare aziende, applicabile a conglomerati di imprese eterogenee, oltre che sbagliata tecnicamente, aveva prodotto strutture pesantissime, a vantaggio principalmente dei livelli superiori. Nell’Italia di questi giorni, si propongono fusioni di Ferrovie prima con Anas poi con Alitalia; e, pur di rinazionalizzare la rete telefonica, senza timore di contraddizione, non si esita a smantellare Tim, una delle poche grandi aziende che abbiamo.
I sostenitori della fusione ferroviaria portano allora avanti l’argomento della maggior possibilità di fare ricerca e innovazione: senza peraltro fornire la minima indicazione di quali Alstom e Siemens potrebbero fare insieme e ciascuna per sé non potrebbe fare. Neppure l’argomento dell’economia di scala regge: Crrc ha stabilimenti nei Paesi dove vende, e non è che per il materiale ferroviario si possa organizzare una global value chain come per i telefonini.
Ma è la realtà dei nostri Paesi a dimostrare che “Big is beautiful” non è la ricetta giusta: la Germania è campione mondiale dell’esportazione (e noi ci difendiamo non male) non perché lo Stato ha protetto le aziende, ma perché le ha esposte alla concorrenza internazionale. «La concorrenza è una procedura per la scoperta» scriveva Friedrich von Hayek, e la storia gli ha sempre dato ragione. Limitare la concorrenza renderebbe l’Europa più debole, non più forte.
Più sottile è l’argomento “passivo”: la dimensione sarebbe necessaria per evitare la fine del pesce piccolo inghiottito dal pesce grande. Che le aziende italiane (ma anche europee) possano essere catturate una dopo l’altra da imprese cinesi (ma anche da multinazionali americane) per le competenze tecnologiche che porterebbero in dote, è un rischio reale. Ma è un rischio di natura diversa, da cui proteggersi con mezzi diversi. Se fosse vero che il pericolo consiste nel risultare perdenti in una guerra tra grandi potenze continentali, bisognerebbe favorire le operazioni infra-europee. E invece si considerano Le medie imprese acquisite dall’estero (come titolano Barbaresco, Matarazzo e Resciniti per Franco Angeli) più una «perdita delle radici» che «nuova linfa al Made in Italy»; si accusano (Salvatore Bragantini, Contro i pirañas, Baldini&Castoldi) i nostri capitalisti di esporsi alle scorrerie dei fondi di private equity alla rincorsa della massimizzazione del shareholder value; si considera una sconfitta nazionale che Luxottica, dopo l’unione con Essilor, si quoti alla Borsa di Parigi.
Abbiamo avuto i distretti industriali; le aziende del quarto capitalismo con le loro esportazioni sono riuscite finora a tenere in piedi questo Paese; basta un piccolo stimolo perché rispondano innovando e investendo. Sono piccole? Ma è il loro operare nel mercato a determinare la loro dimensione. Certo che conta anche la cultura, e non solo nel senso dell’etica protestante o del familismo amorale. Guardiamo con un misto di superiorità e di invidia i giganti della Silicon Valley: ma è stato l’incontro tra la cultura dei geek e la controcultura libertaria californiana degli anni 80 a creare lo spazio partecipativo in cui tutti sono connessi, si formano comunità, avanza la democrazia e sono nati i Big Tech. È per ragioni culturali che da noi non ci sono, e non ci saranno: e quindi, non potendo essere noi a spezzarle, ci consoliamo se la Vestager le multa, se gli Stati le tassano, e se la Ue, cercando di riportarle nei propri canoni, gli rende la vita un po’ più difficile. Quanto alla politica industriale, può anche creare aziende di grandi dimensioni, ma per vincere la competizione continentale servono imprese che combattano, e inventino, nella concorrenza.
Fonte: da IL SOLE 24 ORE, 07 febbraio 2019