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All’innovazione serve fare massa critica

Chi ormai non sottoscrive la tesi che per un paese come il nostro, stretto nei vincoli di euro forte, alto debito pubblico, bassa produttività complessiva e accresciuta concorrenza dei vecchi e i nuovi protagonisti della globalizzazione, bisogna continuare a innovare prodotti e servizi per stare sul mercato, creando così (buona) occupazione e migliorando il benessere dei cittadini? Puntualmente ce lo ha ricordato Confindustria nella sua ottava Giornata annuale dell’Innovazione celebrata a Roma due giorni fa. Ma come raggiungere questo obiettivo?
Emma Marcegaglia e Diana Bracco hanno all’unisono chiesto al governo di rendere permanenti (“strutturali”) i crediti automatici d’imposta sulle spese di ricerca e sviluppo delle imprese, in particolare quando vengono coinvolte Università e centri non accademici: strumento semplice ed efficace anche per le imprese piccole e medie e utile per ridurre la distanza tra ricerca scientifica e innovazione produttiva. Il ministro Mariastella Gelmini ha invocato rigore e selezione meritocratica nel finanziamento dei progetti e nello sviluppo delle Università, per ridurre l’attuale dispersione dei fondi che, se da un lato favorisce un discreto posizionamento del paese nella produzione scientifica internazionale e nel numero di progetti presentati nella corsa ai finanziamenti europei, dall’altro lato lascia l’Italia agli ultimi posti quanto a tasso di successo nella selezione dei vincitori. Il vicepresidente e Commissario UE all’Industria Antonio Tajani sollecita l’Italia a partecipare attivamente alla predisposizione dell’8° Programma Quadro in gestazione a Bruxelles.
Tutte sacrosante raccomandazioni, ma intanto – accanto agli incentivi fiscali automatici – dobbiamo accontentarci di un PON Sud-Nord di complessivi 600 milioni di euro e di volonteroso piano di 915 milioni per un programma di “distretti high-tech”. Resta l’antico problema di fondo che frena un salto di qualità dall’attuale strisciante declino di competitività e di attrattività dell’Italia nello sviluppo globale: l’incapacità di valorizzare le moltissime ma iper-frammentate risorse umane e tecnologiche del nostro tessuto produttivo per fare massa critica lungo almeno alcune delle grandi filiere innovative che oggi investono lo sviluppo dei paesi avanzati: dalle energie rinnovabili (nucleare incluso) alle scienze bio-medicali, dall’interconnettività delle reti e dei sistemi di traffico delle informazioni alle nanotecnologie che rivoluzionano prodotti e processi tradizionali, dai modelli urbani e rurali eco-sostenibili ai nuovi materiali compositi. E l’elenco potrebbe continuare, come ben sanno sia i nostri scienziati e ricercatori, sia i molti bravi (e contesi) top managers dei grandi gruppi multinazionali in Italia (quasi tutti a controllo di capitale estero) che quotidianamente confrontano la dimensione degli investimenti in grandi progetti altrui con l’esiguità dei fondi pubblici e privati dispersi da noi in mille rivoli di corto respiro.
Intanto Valerio Battista, CEO della Prysmian, già Pirelli Cavi, ci segnala che lo sviluppo impetuoso dei parchi eolici nel Mare del Nord (con finanziamenti della UE e di alcuni governi nazionali) trascina un prezioso indotto di fornitori di cavi sottomarini, sistemi e reti intelligenti per la distribuzione di energia elettrica. E aggiunge che oggi vengono posati ogni anno 150 milioni di kilometri di fibra ottica nel mondo, con l’Asia che insegue da vicino l’Europa e l’Occidente.
E Aldo Romano, CEO del colosso italo-francese STMicroelectronics (nato circa due decenni dalle costole rotte di una fallimentare impresa delle PP.SS e oggi forse unico esempio di grande impresa radicata in Italia e presente sulle frontiere più avanzate della componentistica elettronica) , ci ricorda quanto sono state condizione cruciale per il sorprendente successo di questo Gruppo alcune alleanze con grandi imprese leader globali come HP, Nokia, Bosch: alleanze che presuppongono a loro volta la famosa massa critica di risorse dedicate allo sviluppo industriale.
Per non parlare dei 100 miliardi di dollari, sui 787 miliardi dell’American Recovery and Investment Act, che Obama ha promesso per favorire investimenti e nascita di nuove imprese in quattro grandi aree: mobilità sostenibile e alta velocità, energie rinnovabili, banda larga e reti intelligenti,ricerca medica.
Conclusione: ben vengano gli incentivi automatici all’innovazione dispersa nel vasto tessuto produttivo dei nostri distretti e dei nostri territori, ma non si pensi di poter fare a lungo a meno di un po’ di quella moderna “politica industriale” che finanzia progetti a medio-lungo termine di partnership pubblico-privato, lungo filiere tecnologiche dove il paese può ragionevolmente impegnare le proprie migliori risorse e sfruttare i propri vantaggi competitivi attuali e potenziali.
Solo aggregando pochi grandi gruppi (italiani ed esteri) con molte medie e medio-piccole imprese del nostro “quarto capitalismo” intorno a progetti di ampio respiro è possibile puntare ad essere meno marginali e più protagonisti proprio in quelle direzioni di sviluppo industriale e dei servizi che tutti riconoscono come proiettate verso il futuro (un termine frequente anche nel linguaggio di molti politici e amministratori nostrani). Direzioni meglio capaci di farci intravedere un orizzonte di vera sfida per il “sistema paese”, dove non ci si accontenti di coltivare tante piccole “nicchie di eccellenza” (che per fortuna abbiamo!), mentre purtroppo dilaga il precariato fra i nostri laureati e diplomati, i test PISA vedono i nostri studenti medi perder colpi nei confronti dei paesi emergenti, la meritocrazia è sonoramente battuta dal familismo e dalla burocrazia, i progetti infrastrutturali continuano a registrare tempi biblici contribuendo al degrado urbano e al già elevato costo della mobilità del lavoro.

Fonte: Il Sole 24 Ore 8 ottobre 2010

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