• giovedì , 21 Novembre 2024

All’Eurozona serve un Fondo più solido

Nei giorni scorsi, per una sapiente fuga di notizie al Financial Times Deutschland, pubblico e mercati sono venuti a conoscenza del piano, elaborato dal gruppo di paesi dell’eurozona che hanno ancora un merito di credito di “tripla A”, di far aumentare la dotazione dello EFSF, il fondo di salvataggio dei paesi dell’eurozona in crisi approntato in tutta fretta lo scorso maggio e dotato di circa quattrocento miliardi di euro. L’idea di fondo dei sei paesi virtuosi è chiedere ai loro colleghi dell’eurozona, tra cui l’Italia, che virtuosi non sono perchè hanno debiti pubblici elevati, un corposo contributo in contanti allo EFSF, tale da farne aumentare le dimensioni, in particolare la capacità di indebitarsi sui mercati.
Va da sè che l’Italia sarebbe il maggior contribuente. La richiesta è giustificata dal fatto che i mercati si fidano solo delle garanzie dei paesi a “tripla A” e che quindi concederanno allo EFSF circa metà di quanto la sua consistenza dovrebbe permettergli di raccogliere, perchè le garanzie dei paesi altamente indebitati o a finanze in dissesto non valgono molto. Per questo, tali paesi devono sostituire al loro basso merito di credito corposi apporti in contanti allo EFSF. Qualche giorno dopo, lo EFSF ha emesso il primo prestito sul mercato. Cinque miliardi di euro a cinque anni, con una cedola dello 0,50 per cento più elevata di quella che offrono i titoli di stato tedeschi equivalenti. Cedola ricca, e quindi richiesta elevatissima da parte del mercato, pari a 45 miliardi di euro.
I sei paesi a tripla A fanno notare che la cedola del primo prestito ha dovuto essere elevata proprio per supplire alla inferiorità di merito di credito della emissione, che rispecchia la scarsa credibilità degli altri membri della Unione monetaria europea.
A questa proposta si aggiunge quella, sempre della medesima provenienza, che lo EFSF conceda prestiti ai paesi indebitati dell’Eurozona, coi quali questi provvedano a ricomprare sul mercato, ai prezzi di mercato, assai inferiori a quelli nominali, i propri titoli di stato. In questo modo, si suggerisce, si ottiene che anche coloro che hanno comprato titoli di stato dei paesi indebitati siano puniti per il rischio al quale si sono esposti, perchè credevano che “gli stati non falliscono”.
Infine, da parte del governo tedesco e in particolare del partitto liberale, socio debolissimo (a stare ai sondaggi sarebbe crollato a circa l’un per cento dei voti) della coalizione di governo, si reiterano le richieste di unificazione fiscale della eurozona, che vorrebbe finalmente dire imporre una politica fiscale austera ai paesi spendaccioni e vigilare con appositi uffici sulla sua effettiva realizzazione.
Di nuovo, in queste notizie, c’è solo il fatto importante della emissione di titoli da parte dello EFSF. Il resto gira, in versioni simili a quelle ora proposte, perlomeno da un anno e, sotto il nome di Fondo monetario europeo, da parecchio di più tempo. Esattamente un anno fa la proposta di un Fondo di salvataggio, al quale i paesi più indebitati avrebbero dovuto contribuire in contanti la maggior parte dei fondi, fu fatta da due economisti tedeschi, Thomas Mayer, capo economista della Deutsche Bank e portavoce del suo CEO, Joseph Ackerman, ascoltato consigliere della signora Merkel e Daniel Gros, anch’egli influente consigliere del milieu politico tedesco ma anche molto noto in Italia perchè parla la nostra lingua e si è laureato a Roma con Federico Caffè.
Thomas Mayer aveva lanciato la proposta di un FME parecchio tempo prima, raccogliendo un suggerimento dell’economista americano Barry Eichengreen.
In effetti, che politiche fiscale nazionali autonome sono incompatibili con la moneta unica lo si sa da prima del Trattato di Maastricht. Il Patto di stabilità e crescita fu introdotto proprio come limitazione della autonomia fiscale degli stati. Ma, poichè la Germania, dopo averlo fortemente voluto, fu poi il primo a violarlo e,con l’accordo di Francia e Italia, a togliergli i denti, il problema della incompatibilità tra moneta unica e autonomia fiscale restò, in tutta la sua gravità. La crisi l’ha esacerbata: con il crollo della crescita in tutti i paesi e la necessità di salvare le banche coinvolte nella fine traumatica della bolla finanziaria e immobiliare internazionale, una voragine si è aperta nei conti pubblici di alcuni paesi dell’Eurozona.
Altri di essi, invece, sono stati in grado di fare fronte alla crisi senza mandare a picco le proprie finanze pubbliche. Erano paesi già virtuosi rispetto al proprio debito pubblico, e titolari di un merito di credito di tripla A e tali sono rimasti.
Sono sei in tutto e tra loro campeggiano Germania e Francia, la seconda non si capisce bene perchè, dato che ha un deficit di grandi dimensioni e un debito di tutto rispetto. Ma ha furbescamente imitato la Germania, con una legge costituzionale, che impone di eliminare il deficit di bilancio in alcuni anni.
La necessità di assicurare ai laender orientali un livello di nfrastrutture e di reddito simili a quelli della Germania occidentale ha richiesto l’impiego grandi risorse pubbliche, che si sono ottenute chiedendo pesanti sacrifici ai tedeschi, aumentando le imposte, ristrutturando le industrie con riduzioni salariali e di posti di lavoro, riducendo lo stato assistenziale.
Dopo un periodo di finanza pubblica in difficoltà (da vent’anni sono trasferiti all’Est 200 miliardi di euro l’anno) la Germania è tornata all’equilibrio fiscale. Il modello di gestione corporativa dello stato è stato dunque ricostruito, includendo i nuovi laender, ma a caro prezzo.
L’equilibrio finanziario resta tuttavia precario, dopo la crisi, perchè mentre i cittadini facevano sacrifici, le banche tedesche stupidamente partecipavano al boom della finanza creativa angloamericana, impiegando fondi ingentissimi e quindi incontrando perdite che non sono state ancora contabilizzate e fanno prevedere pesanti necessità di ricapitalizzazione, quantificate in un recentissimo studio del Boston Consulting Group.
Prima del 1914, quando gli stati facevano regolarmente bancarotta dopo essersi indebitati sui mercati internazionali nei periodi di euforia, si costituivano comitati di banche creditrici, che ristrutturavano i debiti di un paese bancarottiere chiedendo e ottenendo che si affidasse loro la disponibilità su alcuni redditizi cespiti di entrata dello stato debitore, fino a estinzione del debito. Nel caso della bancarotta greca del 1897, ad esempio, per assicurare i pagamenti il comitato dei creditori restò in vita fino al 1978.
Noi, che eravamo nelle stesse peste a partire dal 1893, ce la cavammo senza bancarotta perchè Sidney Sonnino e Luigi Luzzatti, preso in mano il governo, sospesa la convertibilità della lira, imposero una stretta fiscale e creditizia tanto pesante da causare la rivolta sociale, che il governo successivo, retto dal generale Bava Beccaris, sedò a cannonate nel 1898.
Gli stessi problemi si pongono ad alcuni tra gli stati europei che hanno adottato la moneta unica. A essi si chiede di salvare altri paesi membri, che altrimenti farebbero bancarotta. In realtà, le proposte citate sopra sono anche un tentativo meno rozzo di quello di fine ottocento di salvare le banche creditrici, i cui bilanci sono ancora ampiamente dissestati, evitando una bancarotta degli stati indebitati, che aprirebbe paurose falle negli attivi delle stesse banche, perchè dovrebbero accettare di svalutare corposamente i titoli di tali stati che hanno in portafoglio.
In fin dei conti, quindi, si tratta anche di una partita interna ai paesi creditori. Sarebbe necessario dire ai loro cittadini che, mentre essi facevano sacrifici cospicui per mantenere l’equilibrio fiscale e la competitività internazionale, le loro banche stupidamente prestavano, alimentando lo squilibrio finanziario e reale di paesi improvvidi, che la crisi ha reso esplosivo.
Ora le perdite delle banche devono essere esibite nei loro bilanci. Dovrebbero fallire, ma se lo stato vuole salvarle, di nuovo il costo ricadrà sui cittadini contribuenti. Forse sarebbe meglio dire le cose come sono: una politica fiscale comune è indispensabile nella eurozona e serve, nell’immediato, a studiare in maniera franca e trasparente come dividere il costo degli squilibri fiscali nei paesi debitori e di quelli bancari che essi causano in quelli creditori.
Le proposte sopra citate vanno nella stessa direzione, ma non si dice chiaramente che servono sia ai debitori che ai creditori. Nel frattempo, nei paesi creditori, politici in difficoltà e giornali in crisi di vendite preferiscono aizzare il popolo contro i paesi debitori, accusandoli di ogni nefandezza.
In Germania si spara anche, da parte dei democristiani al governo, contro le proprie banche, forse nell’intento di fare assorbire le più deboli dalle meno deboli, dando a queste ultime un cospicuo aiuto governativo. Ma nemmeno la Merkel e persino Schauble rinunciano a fare demagogia, anche perchè elezioni in ben cinque stati incombono nei prossimi mesi.

Fonte: Affari e Finanza del 31 gennaio 2011

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