Con i venti di guerra incipienti, le incertezze sulla crescita economica e le riforme strutturali che in Italia restano da completare, ci sarebbero cose ben più urgenti da affrontare che non il referendum per la cancellazione di quella parte dello Statuto dei lavoratori ( l’art.18) che provocherebbe il blocco delle assunzioni anche nelle piccole imprese o nella migliore delle ipotesi farebbe aumentare l’area del lavoro nero o irregolare.
Ma poiché fra appena 12 settimane dovremo comunque misurarci con una campagna elettorale su questi temi, vale al pena di sottolineare il doppio rischio che il Paese si avvia a correre che è quello di avere meno lavoro legale e più lavoro illegale, in un panorama in cui il “sommerso” non è più spinta ma è freno all’economia.
Cominciamo con il chiarire l’ambito del prossimo referendum che è la cancellazione dell’art 18 dello Statuto dei Lavoratori, il quale impone l’obbligo di riassunzione del lavoratore licenziato solo per le imprese di maggiori dimensioni, cioè con un numero di dipendenti superiore ai 15. Promuovendolo, una parte dei Ds, Rifondazione comunista, i Verdi ed i metalmeccanici della Cgil vorrebbero introdurre più egualitarismo, più ipergarantismo e maggiori rigidità nel mercato del lavoro italiano, sostanzialmente riportando le lancette del dibattito su questi temi indietro di trent’anni, agli anni settanta , esattamente quando cominciarono i guai maggiori per l’economia, la competitività, l’inflazione.
E’ evidente la componente politica ed ideologica dell’iniziativa, che ha due aculei : è diretta ad avvelenare e condizionare il dibattito in corso per la leadership della sinistra, ed è orientata contro l’azione del Governo e della Cisl e Uil che, con il Patto per l’Italia, stanno andando esattamente in direzione opposta e più avanzata, cioè verso un mercato del lavoro più flessibile ed articolato come presupposto alla maggiore crescita dell’economia e dell’occupazione.
Il guaio è però che la ragion politica della sinistra estrema , movimentista e girotondina, insiste su una situazione economica e sociale ben diversa da quella degli anni settanta, ed in un contesto competitivo per l’industria italiana assai differente e più disagevole.
Sappiamo per esempio, che la convergenza dell’economia verso la moneta unica ha sottratto alle imprese la possibilità di utilizzare le svalutazioni del cambio come scorciatoia per recuperare competitività che non erano in grado di agguantare agendo sulle componenti interne del costo di produzione (mercato del lavoro, fisco, ricerca ed innovazione). Sappiamo che la conseguenza è stata negli ultimi anni una perdita di competitività dell’impresa italiana progressiva, segnata da una riduzione della presenza italiana sui commerci internazionali. Grande industria in crisi ed imprese esportatrici meno competitive,dunque, non resta che la piccola impresa a dar segni di vitalità.
E dunque, come pensiamo che si comporterebbe una piccola industria di fronte all’introduzione di nuovi vincoli, ostacoli, oneri, come per esempio, il divieto di licenziare in caso di difficoltà, il lavoratore assunto? Rinuncerebbe ad assumere, o nella migliore delle ipotesi, si rifugerebbe nell’economia ” sommersa”. Ma qui subentra la seconda novità che è il peggioramento strutturale del “lavoro nero”.
Una volta il lavoro nero veniva disprezzato nelle sedi ufficiali ma in quelle meno ufficiali e più reali era considerato una vera salvezza per l’economia . Erano gli anni cinquanta-sessanta, quelli del miracolo economico e poi erano gli anni settanta quelli del ” piccolo è bello” e il sommerso era in sostanza la risposta reale alle leggi irreali , era quella forza vitale, quella spinta propulsiva che dal basso del Paese sfidava le regole dello Stato, del Fisco, dell’Inps. Trasgrediva, talvolta evadeva, ma nel contempo dava testimonianza virtuosa di sé, creava valore, trasferiva competitività al sistema economico italiano. Ebbene, quel sommerso non esiste più. I dati e le rilevazioni elaborate dal Censis , dall’Ocse e dall’Università di Tor Vergata dicono che quello di oggi è un sommerso prevalentemente meridionale, di risulta, poco manifatturiero e molti di servizi alla persone, più extracomunitario e meridionale. Non è un sommerso d’attacco ma di difesa; non è vitale, ma scarico; non produce valore aggiunto al Paese ma lo consuma nella scarsa produttività.
Ed allora, se un quarto della ricchezza italiana è prodotta dal sommerso ( dati Ocse e Censis ) ricordiamoci che la vittoria dei referendari dell’art 18 produrrebbe, questa volta non solo il danno di un ritorno al passato, ma anche la beffa di non avere più nemmeno il paracadute dell’economia sommersa di una volta. Ce n’è abbastanza per compattare anche oltre la maggioranza, la volontà riformatrice sul tema caldo del lavoro.
Bruno Costi
9 febbraio 2003
Fonte: Il Giornale del 12 febbraio 2003