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Al G20 Angela fa muro e Pechino fa la volpe

Anziché a Toronto il G-20 si sarebbe dovuto svolgere nella cittadina di Maywood in California, diventata famosa per aver licenziato tutti i dipendenti pubblici e chiuso anche gli uffici di polizia per risanare i propri conti, o su una delle isole greche che presto Atene venderà al miglior offerente. Per quanto diverse le posizioni con cui Europa e Usa sono arrivate a Toronto, il problema del debito pubblico è emerso come ciò che legherà entrambi per i prossimi anni. Pensare di uscirne senza coordinarsi è stato un errore.
In molti paesi, Stati Uniti compresi, l’aggiustamento fiscale deve cominciare prima che i mercati comincino a dubitare della sostenibilità del debito, come è già avvenuto nell’eurozona. Il taglio dei disavanzi metterà pressione sui sistemi finanziari – e anche questo avrebbe richiesto riforme condivise – e sulla crescita da compensare con riforme strutturali che non possono essere vanificate da comportamenti protezionistici. Infine i rischi alla stabilità finanziaria indotti da politiche monetarie ancora accomodanti possono rivelarsi incontrollabili senza un percorso di rientro ordinato.
Nel 2008 il coordinamento tra i paesi del G-20 aveva avviato l’uscita dalla crisi ridando respiro, con ampi stimoli fiscali e monetari in tutti i paesi, a un’economia mondiale in asfissia. Due anni dopo l’armonia è già appassita, il comunicato del G-20 lo testimonia con impegni vaghi e nominali: correzioni di bilancio già previste, appelli generici al rilancio della crescita nei paesi in surplus, nessun impegno sui cambi, e la prevista incapacità di attuare una riforma comune dei sistemi finanziari.
La spiegazione ufficiale è che i paesi oggi hanno priorità diverse tra loro – la ripresa, come dice il comunicato, non è solo fragile ma diseguale – e non hanno quindi comuni intenti e facilità di compromesso: gli Stati Uniti vogliono assicurare la crescita e l’Europa (con la Germania di fatto paese leader) necessita di stabilità fiscale. Dopo il G-20 gli analisti parlano di “positivo pragmatismo”, ma fanno confusione: ciò che è cambiato nel 2010 è che, arginata la crisi finanziaria, i governi hanno ripreso possesso dell’agenda tra crescenti problemi di consenso democratico.
Il caso americano è particolarmente delicato. L’elettorato americano è furioso per il debito. Perfino all’interno del partito democratico si è spaventati per le proiezioni fiscali e il Congresso sta varando provvedimenti drastici di riduzione della spesa pubblica che si faranno sentire sulla crescita Usa. Dopo le elezioni di medio termine a novembre la pressione aumenterà ancor di più. Se la crescita declina, Obama rischia una fase politicamente durissima. Gli effetti della legge del 2009 sull’American Recovery and Reinvestment si esauriranno in gran parte entro l’estate e non saranno sostituiti da nuove leggi di spesa. La scorsa settimana la bocciatura di un emendamento alla legge di bilancio ha smantellato alcuni stabilizzatori fiscali introdotti durante la crisi, colpendo i sussidi di disoccupazione e la spesa sanitaria. La leadership democratica al Congresso, terrorizzata dalle elezioni di novembre, progetta limiti automatici di spesa più bassi di quelli desiderati dal presidente.
Il recente Rapporto fiscale degli Stati inoltre testimonia una stretta fiscale imponente nelle amministrazioni locali, indotta dagli emendamenti sul pareggio di bilancio, che secondo i giornali Usa minaccia la distruzione del tessuto sociale. Le dimissioni di Peter Orszag dall’ufficio del bilancio sono un sintomo della sfiducia nelle scelte ispirate da Larry Summers restie all’austerità. Il timore con cui Washington ha seguito la crisi di Atene non è del tutto casuale: nuova spesa pubblica amplierebbe il deficit anche nella bilancia con l’estero. La crisi greca, con tutte le differenze del caso, ha dimostrato la fragilità di un doppio squilibrio nella bilancia pubblica e in quella dei pagamenti in una fase in cui gli investitori sono avversi al rischio.
L’unica soluzione per il presidente Obama era dunque di chiedere ai paesi con il bilancio in attivo di sostenere l’economia, evitando agli Stati Uniti una ricaduta in recessione e al mondo l’assenza di ogni “consumatore di ultima istanza”. In un mondo simile in cui tutti devono tagliare i disavanzi pubblici e in cui i flussi di risparmio tra i paesi devono riequilibrarsi, il senso del coordinamento è chiaro: i paesi in surplus devono aumentare i consumi e importare da quelli in disavanzo.
I due alberi da scuotere erano la Cina e la Germania. Pechino ha fatto finta di cedere sulla flessibilità del cambio concedendo un cinquantesimo di quanto sarebbe necessario. Berlino è legata all’austerità fiscale anche dalla necessità di dare credibilità alla zona euro (i dati sul riequilibrio spagnolo dei conti con l’estero, rendono giustizia a questa strategia). Le proposte tedesche per il rilancio della domanda interna, più ristoranti e meno servizio civile, sono imbarazzanti, ma in un mondo tanto incerto e appeso ad agende politiche nazionali nessun consumatore, meno che mai uno tedesco, sarebbe rassicurato dall’aumento globale dei debiti.
Il rientro del debito pubblico in America e in Europa peserà sul mondo per gli anni a venire e richiede un impegno comune alla sostenibilità, nonché il coordinamento delle politiche monetarie. Di fatto richiede un sacrificio nei margini di libertà dei governi nazionali. A questo d’altronde servono i vertici internazionali. Ognuno ha giustificazioni politiche interne per resistere ai sacrifici richiesti dalla cooperazione. Ma se i governi pensano di poter superare queste resistenze solo quando le crisi diventano acute, saranno presto accontentati.

Fonte: Sole 24 Ore del 29 giugno 2010

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