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Airbus, il simbolo del vecchio continente che non decolla

Il più grande aereo di linea mai concepito, l’Airbus A380, è in crisi. Di conseguenza, l’Eads – la società franco-tedesca-anglo-spagnola che controlla Airbus – ha annunciato perdite consistenti a causa delle penali che dovrà pagare alle compagnie aeree che lo hanno ordinato e che subiranno ritardi nelle consegne. Questa circostanza ha ridato fiato a quanti, in campo aeronautico, hanno sempre inclinato a guardare oltre Atlantico, ossia a privilegiare le alleanze industriali con i consolidati giganti statunitensi – Boeing e Lokeed – piuttosto che con le industrie europee e, più precisamente, con Airbus. Tanto perché la politica deve entrare sempre dappertutto, è stata ricordata come “azzeccata” la scelta del primo governo Berlusconi (ministro della difesa era Martino) di non partecipare neppure al progetto di aereo militare strategico, l’A400M, ritenuto non conveniente rispetto agli Hercules della Lokeed già in servizio da molti anni.

Per più di un motivo, però, delle disgrazie dell’Airbus non c’è proprio da rallegrarsi, né tanto meno possono portare a concludere la “lungimiranza” della scelta che fu fatta di non partecipare all’Airbus in genere ed al progetto A400M in particolare.

Non c’è da rallegrarsi in primo luogo perché l’A380 è un programma assai ambizioso, una sfida tecnologica, per cui non può stupire più di tanto se, nel passaggio dal primo esemplare che ha già volato all’avvio della produzione in serie, si presentano problemi di ingegnerizzazione la cui soluzione comporta, ovviamente, un ritardo. Errori saranno anche stati commessi, ma l’imponenza del progetto rimane.

Rimane anche il successo commerciale che l’A380 ha già ottenuto ancor prima di volare essendo stato ordinato a scatola chiusa da molte compagnie per un totale di 159 esemplari. E per fortuna, perché l’Italia, pur non essendo entrata nel consorzio Airbus e, dunque, non essendo ora azionista di Eads, con Airbus ha stretti rapporti di collaborazione industriale che la rendono partecipe, attraverso Alenia Aeronautica, di molti progetti comprese, con una quota importante, proprio la progettazione e la produzione dell’A380.

Ma la contestazione non riguarda tanto i fatti, quanto la strategia. Airbus è costato parecchio agli Stati che parteciparono all’iniziale consorzio, evoluto poi nell’attuale società per azioni. Ma gli Stati non sono enti con fini di lucro; e il loro operato non si misura sulla capacità di fare «affari». Airbus doveva servire, ed è servita, non solo e non tanto per evitare che gli Stati Uniti detenessero il monopolio di mezzi tra i più specialistici e sofisticati destinati a diffondersi sempre più nel mondo come i grandi aerei di linea. Doveva servire, ed è servito, soprattutto ad evitare che l’Europa rimanesse tagliata fuori da molti campi delle più evolute tecnologie. Una impresa come Airbus induce ricerca, formazione di personale e di maestranze ad altissima qualificazione, nuove competenze in settori come l’elettronica ed i materiali compositi, la formazione di un indotto di piccole imprese con una specializzazione da far valere anche verso altri committenti, la generazione di una infinità di applicazioni civili, prodotti innovativi prima neppure immaginabili, magari da poter vendere alla Cina ed agli altri Paesi emergenti.

A ben guardare, l’Europa ha fatto con Airbus qualcosa di molto simile a quanto gli Stati Uniti hanno fatto, molto più in grande, con la spesa militare. Fare i calcoli dei costi e dei benefici di queste politiche non è possibile perché occorrerebbe quantificare, oltre ai costi a carico dei bilanci pubblici, tutte le ricadute sul sistema industriale, sulla nascita di nuove imprese, sullo sviluppo di competenze, sul valore aggiunto delle esportazioni, sui primati tecnologici. Ma dovrebbe pur dire qualcosa la semplice constatazione che gli Stati Uniti detengono il primato della tecnologia e dell’industria più innovativa, che l’Europa arranca all’inseguimento, e che l’Italia ha difficoltà pure ad arrancare.

Fonte: La Stampa del 9 ottobre 2006

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