• martedì , 24 Dicembre 2024

Aggrapparsi all’industria tradizionale è strategicamente sbagliato

Dirottiamo le risorse sul futuro anziché su un incerto presente
Quando nei giorni scorsi prima il Fondo Monetario, prevedendo solo un +0,9% per il pil 2010, e poi l’Ocse, stimando che il terzo trimestre sia negativo (-0,3%), hanno lanciato segnali d’allarme circa la lentezza della ripresa economica italiana, la solita banda degli “ottimisti a cottimo” ha inveito. Quando poi è stata la Confindustria a “dare i numeri”, non si è trovato niente di meglio che domandarsi se la Marcegaglia fosse passata all’opposizione. Temo che neppure il dato sul calo del fatturato industriale e degli ordinativi a luglio, che conferma un secondo semestre ben diverso dal primo e allontana ancora di più (Confindustria dice 2013 se ve bene) il già distante momento del pieno recupero di quanto perso nel biennio della recessione (produzione, export, reddito, consumi, investimenti), servirà ad aprire una discussione non viziata dalla propaganda politica sulla condizione della nostra economia. Tuttavia, siccome il ministro Tremonti ci sollecita giustamente ad essere più ambiziosi e chiede alle parti sociali di scrivere con il governo quella “agenda dello sviluppo” che avrebbe dovuto essere (e non è stata) la bibbia della legislatura fin dal suo primo giorno, colgo l’occasione per ribadire che, come insegna la vicenda Fiat, bisogna prima di tutto discutere di quale modello di sviluppo dobbiamo e possiamo dotarci. E a questo fine “rubo” al mio amico Mimmo De Masi una riflessione che condivido circa la “tripartizione” che la globalizzazione post Grande Crisi ha imposto al mondo. Per effetto di essa ci sono paesi ormai post-industriali che preferiscono produrre idee (soprattutto nel campo dell’informazione, dei simboli, dei valori, dell’estetica) e quando producono manufatti lo fanno perché a monte hanno investito sull’immateriale; paesi, e sono quelli che di solito definiamo “emergenti”, che producono beni materiali, in buona misura con processi labour intensive a scarso valore aggiunto, anche se già ora ambiscono a invadere il primo campo; e infine paesi del Terzo Mondo, ancora in via di sviluppo. La differenza, dice De Masi, è che in Usa, Canada, Giappone, Europa, il reddito pro capite supera i 20.000 euro e il costo del lavoro è intorno ai 20 dollari l’ora, mentre nei paesi di più recente industrializzazione, per esempio il Brasile, il reddito pro capite è di 8000 euro e il costo del lavoro orario è intorno ai 7 dollari. Domanda: c’è spazio per competere se un operaio italiano deve produrre almeno tre volte di più di uno sudamericano o asiatico per pareggiare i punti di partenza? Evidentemente no. Questo significa che non possiamo avere i costi della prima fascia e la produzione della seconda, e siccome sarebbe assurdo ridurre i salari (anche perché crollerebbe la domanda interna), non ci rimane che cambiare tipologia produttiva. Idee e prodotti di alta sofisticazione, con grandi contenuti di carattere scientifico, ci fanno vincere, la Panda – tanto per rimanere alla vicenda Fiat – ci fa perdere. Sia chiaro, so bene che nel breve c’è spazio perché del lavoro si aumentino i ritmi e si contenga, magari dal lato fiscale, il costo. Ma è un modello di sviluppo sostenibile? Non è meglio dirottare risorse sul futuro anziché su un incerto presente? Aggrapparsi all’industria tradizionale è psicologicamente comprensibile, ma strategicamente sbagliato. E l’andamento strutturale della nostra economia ce lo avrebbe dovuto insegnare da tempo. Meglio tardi che mai.

Fonte: l Messaggero del 19 settembre 2010

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