Dopo la crisi il modello tedesco appare più affine alla società italianaL’ anglo-filiaLa conversione appare come un sano bagno di realismo. Ci siamo ricordati di essere, anche noi come loro, un Paese industriale.Noi capitalisti di relazione non potevamo non vedere con invidia il capitalismo contendibile di stampo anglosassoneLa passione per la Germania oscura il mito di Londra.
Copiamo la Germania. Ormai dall’ establishment italiano è questa l’ indicazione che arriva. L’ ha detto il Governatore Mario Draghi e gli ha fatto eco il banchiere centrale europeo Lorenzo Bini Smaghi, a Cernobbio l’ hanno sostenuto manager di punta come Corrado Passera e giovani imprenditori come Paolo Merloni. È evidente che gli straordinari risultati dei tedeschi nell’ exit strategy dalla crisi sono di per sé un potente incentivo all’ imitazione, ma forse c’ è qualcosa di più. Siamo a un punto di svolta politico-culturale, le nostre élite che sono state per una lunga stagione anglofile ora si riscoprono germanofile. Realizzano che tutto sommato il modello tedesco è più affine alla nostra storia passata e recente, mentre la trasformazione dell’ Italia in una società totalmente aperta si è rivelata quanto meno un’ utopia. L’ anglo-filia del nostro establishment si è nutrita nel tempo di componenti diverse. Innanzitutto l’ ammirazione per Londra, per la sua atmosfera cool e per la sua finanza straordinariamente veloce. Noi capitalisti di relazione non potevamo non vedere con invidia il capitalismo contendibile di stampo anglosassone. E sono stati centinaia i manager italiani che alla fine si sono fatti le ossa in riva al Tamigi e da lì hanno costruito il successivo cursus honorum in patria. Persino Stefano Ricucci a suo modo era anglo-filo e i fondi-avvoltoio avevano i loro estimatori nostrani. Per un pugno di liberisti puri e duri l’ anglo-filia era prima di tutto riconoscenza postuma nei confronti di Margaret Thatcher, mentre per la sinistra più moderna era adorazione per Tony Blair, gli spin doctor e la flexcurity. Nei suoi anni d’ oro l’ anglo-filia ha prodotto tra le altre cose un quotidiano, Il Riformista, un documento congiunto D’ Alema-Blair scritto da Tito Boeri e soprattutto una buona penetrazione commerciale per l’ «Economist» e il «Financial Times». La Grande Crisi ha fatto piazza pulita del mito londinese e chi volesse essere anglo-filo a vita deve ora sperare in David Cameron e nella sua Big Society, ma intanto gli tocca star fermo un giro. Ai tempi della Dc per le classi dirigenti italiane essere germano-file era quasi automatico, i due partiti erano fratelli. Con la tv commerciale e la Seconda Repubblica quest’ eredità è stata cancellata di brutto, Drive In sapeva di stelle e strisce. Il tedesco non si è mai studiato nelle scuole italiane e la sinistra non ha mai amato veramente la Spd. Tra i manager di grido il solo Franco Tatò osava proclamarsi germano-filo e per scrivere su Panorama si era scelto uno pseudonimo teutonico, Dario Enkel. Per lungo tempo in prossimità del varo dell’ euro la Germania per noi aveva il volto feroce di Hans Tietmeyer, il capo della Bundesbank, che non ci voleva nella moneta unica. Ora però scopriamo che la Germania è federalista come vorremmo esser noi, ha sindacati forti quanto i nostri ma intelligenti quanto vorremo che fosse la Cgil. Persino il multiculturalismo tedesco, simboleggiato dalla nazionale di calcio piena di turchi e polacchi, ci ha folgorato la scorsa estate e il sito www.italianiaberlino.de è pieno di richieste di ragazzi italiani che cercano casa nella città del Muro. E Giuliano Amato, che la sa sempre lunga, qualche mese fa è entrato nel board della Deutsche Bank, mica della Goldman Sachs. In definitiva la conversione tedesca delle nostre élite appare come un sano bagno di realismo. Ci siamo ricordati di essere, anche noi come loro, prima di tutto un Paese industriale. Con tanti Piccoli e pochi grandi, ma pur sempre un Paese «offertista». L’ ha detto anche il Quirinale.
Addio al mito di Londra. E’ il momento della Germania
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