I due quesiti sull’acqua, mentre sembrano suscitare pochi dubbi nella maggior parte dei cittadini, specie in molti di quelli che hanno sperimentato le prime privatizzazioni, ne provocano invece all’interno del Pd, dove sono emersi parecchi casi di diversificazione dalla linea ufficiale del partito, anche di parlamentari ed esponenti di primo piano, che hanno dichiarato che voteranno “no”, alcuni ad entrambi i quesiti, altri soltanto al secondo, quello che riguarda la remunerazione degli investimenti in bolletta. Una delle critiche che vengono mosse più frequentemente, che è poi il cavallo di battaglia dello schieramento avverso, è che si sarebbe fatta una mistificazione propagandistica, facendo credere ai cittadini che si voglia privatizzare l’acqua, mentre in realtà si decide sull’affidamento della gestione tramite gara pubblica e sull’obbligo di vendere ai privati almeno il 40% delle aziende idriche. L’obiezione è tecnicamente fondata, ma di fatto poco rilevante. L’elemento acqua, è vero, resterà comunque pubblico, come la proprietà delle infrastrutture. Ma dato che si affiderebbe il servizio con concessioni lunghissime, venti o trent’anni, qual è la differenza nella sostanza?
Il “fronte del no” afferma poi che l’affidamento del servizio tramite gara pubblica garantirebbe che la gestione sia data a chi garantisce maggiore efficienza. Vero, in teoria, ma solo se questo avvenisse in un quadro di condizioni ben precise. Affrettarsi a fare le gare in un settore ancora non regolato e privo di un’Authority di controllo (quella che il governo si appresta a varare è un’agenzia, meno indipendente e con meno poteri rispetto a un’Authority) porterebbe inevitabilmente, nella maggior parte dei casi se non in tutti, ad esiti poco felici per gli utenti. I rincari delle bollette sarebbero sicuri, tutto il resto (investimenti, maggiore efficienza, eccetera) niente affatto. Tanto più che i gruppi che si disputano questo business sono pochi e per lo più molto grandi, il che rende assai poco scontato che si instaurerebbe una reale concorrenza e probabili, invece, accordi collusivi. Aggiungiamo che la vittoria del “sì” abolirebbe anche l’obbligo di cedere ai privati almeno il 40% delle aziende idriche pubbliche entro il 31 dicembre prossimo. Quando si è obbligati a vendere, e in tempi stretti, il prezzo lo fa il compratore: perché dovremmo svendere una parte di patrimonio pubblico?
La materia del secondo quesito è più controversa. Per ragionarci è necessario partire da una posizione di principio: su un servizio pubblico essenziale – e sul fatto che l’acqua lo sia non credo che possano esserci dubbi – è lecito o no che sia consentito un profitto? Io credo di no. Che cosa penseremmo se ci dicessero che l’amministrazione della giustizia deve generare degli utili? Se si è d’accordo su questo si può passare alla seconda parte del problema. Affermano i contrari che l’eventuale prevalenza del sì impedirebbe l’inclusione del costo del capitale nella tariffa idrica. E siccome per gli investimenti – che sono indubbiamente necessari – c’è bisogno di capitali, se il costo di queste sommme non può essere addebitato agli utenti non può che andare a carico della fiscalità generale. Che però può avere altre priorità (dagli asili nido all’assistenza agli anziani, per fare due esempi), col risultato che gli investimenti non si farebbero e la nostra rete idrica continuerebbe ad essere il colabrodo che è ora, con le perdite più alte d’Europa e con molti cittadini, specie nel Mezzogiorno, che hanno un servizio da carente a disastroso.
In realtà però la legge parla di “remunerazione” del capitale investito, e fissa anche a quanto dovrebbe ammontare tale remunerazione: il 7%. Ora, per gli economisti “costo” e “remunerazione” del capitale sono praticamente sinonimi, ma questo non è necessariamente vero. Se io gestore sono un’azienda pubblica la mia necessità è quella di spesare il costo del capitale: il costo e basta, non devo guadagnarci. Se invece sono un privato non mi basta chiudere il bilancio in pari, voglio anche fare un profitto. Se dunque si dice che la tariffa non deve prevedere la “remunerazione” del capitale investito, questo non significa che non possa tener conto del suo “costo”. Certo, è questione di interpretazione, ma come tutti sappiamo il referendum serve per esprimere un orientamento politico, non può entrare nelle specifiche tecniche. E abbiamo numerosi esempi di come in passato gli esiti dei referendum siano stati “interpretati” dalle norme successive: altrimenti non avremmo oggi, per esempio, un ministero delle Risorse agricole, visto che il ministero dell’Agricoltura è stato abolito per ben due volte.
Si può aggiungere che la valutazione degli investimenti (quindi della base su cui dovrebbe essere calcolato l’aumento) non è facile come potrebbe sembrare, neanche se ci fosse – e non c’è né è prevista – un’Authority dotata di forti poteri e competenze. E che la remunerazione fissa del 7%, stabilita anni fa in altre condizioni dei mercati finanziari, oggi appare decisamente eccessiva. In ogni caso non dovrebbe essere prevista per legge, ma trattata con l’Authority – che non c’è – che prenderebbe in considerazione anche un’altra serie di parametri, dai miglioramenti di produttività all’efficienza del servizio, e così via: tutte cose di cui non c’è traccia nell’attuale normativa. Come non c’è traccia di un altro concetto che è invece di grande importanza. Dovunque nel mondo, anche – anzi, soprattutto – nei Paesi dove è nata l’onda delle privatizzazioni, Regno Unito e Stati Uniti, le Authority chiedono ai gestori di servizi un aumento costante della produttività. I guadagni che ne conseguono, poi, devono essere divisi fra il gestore e gli utenti, facendo diminuire, o comunque aumentare meno, il costo della bolletta. Anche nei templi del capitalismo si pensa che i consumatori debbano avere i loro vantaggi. Da noi questo aspetto è evidentemente ritenuto trascurabile.
Certo, votare i due “sì” non risolverebbe nessuno dei problemi attuali, ma eviterebbe ulteriori danni. Danni da cui non sarebbe facile tornare indietro: ricordiamo ancora una volta che le concessioni in questi settori sono lughissime, almeno venti-trent’anni. Una serie di motivi, insomma, che consigliano vivamente di tenerci stretta la gestione pubblica: dopo di che bisognerà comunque affrontare i problemi del settore. Problemi che non sono piccoli, ma neanche irrisolvibili, come dimostrano varie gestioni pubbliche di grande qualità ed efficienza.
Ma in tutto questo la questione forse più importante è anche quella più incerta: si riuscirà a raggiungere il quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto, senza cui i referendum non sono validi? I numerosi quesiti proposti negli anni recenti sono tutti naufragati su questo scoglio. Stavolta, però, il caso è diverso, gli argomenti toccano davvero da vicino la nostra vita. Bisogna farsi sentire.
Acqua, i motivi per i due si
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