• domenica , 22 Dicembre 2024

“Abbattere il debito? Si può”

Nel dibattito sugli impegni assunti dall’Italia con l’Ue, si perde di vista il nodo centrale: lo stock di debito pubblico rispetto al Pil (ormai attorno al 120%). Le analisi più recenti (CESifo Working Paper No. 3595, De Nederlandsche Bank Working Paper No. 273 ambedue diramate a fine ottobre, ma non ancora stampate), affermano che, data la nostra struttura economica e demografica, se il debito pubblico supera l’85% del Pil, il macigno agisce come un freno di almeno l’un per cento l’anno sulla crescita. Il tasso di crescita ‘potenziale’ del Paese è stimato tra l’1,5 ed il 2,5 % l’anno: ci si condanna alla stagnazione qualsiasi altra misura si applica in materia di mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni. Ridurre gradualmente il fardello con un ‘avanzo primario’ (entrate superiori alle spese pubbliche al netto del servizio del debito) tale da portarlo al 60% del Pil (nei tempi previsti dal ‘patto euro-plus’) implica una manovra di 35-50 miliardi di euro l’anno per i prossimi 20 anni – ossia condannare almeno una generazione alla recessione. La nostra pare una malattia congenita: in 150 anni di Unità, per ben 111 anni lo stock di debito pubblico ha superato il 60% del Pil. Ci sono principalmente tre modi per curarla (in via temporanea o permanente). Uno: ristrutturazione e consolidamento. È la strada seguita più frequentemente dai ‘sovrani’ non solo per la componente estera (come ricordato da Avvenire del 20 ottobre) ma per il totale. La storia è costellata da consolidamenti di successo da quella di Nerone nel 64 d.C. a quella di De Gaulle nel 1958 a quella di Gorbaciov nel 1987. Tutte e tre sono state accompagnate da forti programmi di liberalizzazione all’interno e sull’estero. In Italia, i mercati hanno esplicitamente chiesto un consolidamento nell’estate 1992. Non la attuammo per non urtare il «popolo dei Bot»; il 17 settembre 1992 la lira venne deprezzata del 30%, urtando i «Bot people» e tutti gli altri. Saremmo entrati nell’unione monetaria con uno stock di debito più sostenibile.
La storia economica non ricorda consolidamenti/ ristrutturazioni di debito pubblico da parte di un solo Stato all’interno di un’unione monetaria: quando ciò venne tentato (in unione monetarie dell’Africa orientale e dell’Estremo Oriente in tempi relativamente recente) saltarono monete uniche e i loro annessi e connessi.
Due: maxi-inflazione. Altra via frequentemente battuta. In Italia la perseguì il liberale Einaudi, portando, nel lasso di pochi anni, lo stock di debito pubblico dal 120% al 24% ed aprendo la porta a un quarto di secolo di sviluppo. Lo stesso Einaudi scrisse, con il senno del poi, che sarebbe stato «più equo» attuare una manovra di «finanza straordinaria» (ad esempio, un’imposta patrimoniale). Adesso, la maxi-inflazione non ci è permessa dagli statuti Bce e il solo sentore di una patrimoniale non tanto darebbe la esca a fughe di capitali ma verrebbe letta dai mercati come il preludio di una bancarotta (vedi Islanda ed Irlanda).
Terzo: forte crescita economica. È il percorso perseguito con successo dai governi (sia tory sia laburisti) dal 1945 al 1955: la loro moneta, però, era il fulcro dell’area della sterlina (e la Bank of England non doveva condividere con l’ottantina di altri soci le proprie strategie), la forza lavoro era giovane, la popolazione entusiasta per la vittoria. In Italia, il debito frena il Pil, la denatalità ha causato un profilo demografico anziano, le imprese faticano sui mercati mondiali e non si respira entusiasmo.
Un macigno che frena la crescita. Italia condannata alla stagnazione. Ecco tre strade per «curarci»

Fonte: Avvenire del 2 novembre 2011

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