• venerdì , 22 Novembre 2024

Stato e mercato, due visioni a confronto

Le conseguenze economiche dell’esistenza e dell’attività dello Stato rappresentano una sede privilegiata delle discussioni politiche, ma anche l’oggetto della disciplina tradizionalmente conosciuta nel nostro paese con il nome di Scienza delle finanze. I problemi della condotta economica dello Stato possono essere studiati partendo da premesse metodologiche molto diverse e così è stato nel corso di due secoli. Da tempo i due “filoni” principali della disciplina fanno riferimento a R.Musgrave e a J.Buchanan; nel 1998 H.W. Sinn dell’Università di Monaco ha organizzato una settimana di dibattiti tra i due (alla presenza di altri studiosi) che consentisse di focalizzare le differenti visioni sull’attività dello Stato; il testo delle discussioni è raccolto in un volume edito da MIT Press (J.Buchanan e R.Musgrave, Public Finance and Public Choice,two contrasting visions of the State,MIT Press 1999). Le divergenze tra i due approcci sono rilevanti (tanto da giustificare il sottotitolo del volume) sia dal punto di vista della valutazione degli effetti economici delle politiche pubbliche sia da quello delle “regole” che si ritiene opportuno suggerire alle scelte di finanza pubblica, anche se sia la scuola di “Public Finance” sia quella di “Public Choice” condividono alcune caratteristiche fondamentali, tra cui l’individualismo metodologico, che rifiuta la visione “organica” dello Stato e comporta il riconoscimento della supremazia delle preferenze individuali nelle scelte economico-pubbliche, e l’accettazione del ruolo preminente del mercato nella ripartizione delle risorse.
J.Buchanan, il fondatore della scuola di “Public Choice”, ha avuto il merito di introdurre nell’analisi economico-pubblica di lingua inglese gli interessi divergenti nei vari soggetti che partecipano alla formazione delle scelte collettive (i burocrati, i politici, i gruppi di pressione, le stesse maggioranze degli elettori …). Questi interessi e i meccanismi di formazione delle scelte rendono irrealistiche le conclusioni della scuola tradizionale di “Public finance”, che ricerca soluzioni efficienti attraverso un paternalismo benevolente rispettoso delle preferenze individuali degli utenti (consumatori) nelle scelte di allocazione delle risorse, ma anche (nelle versioni più estreme) in quelle di tipo distributivo. R.Musgrave ribadisce i presupposti fondamentali dell’approccio dei “fallimenti del mercato”, cui l’attività finanziaria pubblica può rimediare con la ricerca di “ottimi paretiani” (o, comunque, soluzioni di “second best”). Tuttavia, Musgrave dimostra molta saggezza e non condivide l’opinione di chi ritiene di poter sempre fornire “ricette”, teoricamente identificabili a priori, in grado di individuare i migliori assetti allocativi e distributivi delle risorse, né lo studioso sembra condividere l’eccessiva enfasi spesso posta dalla scuola neo-classica sulla “funzione del benessere sociale”; d’altro canto non se la sente di condividere l’opinione secondo cui i governanti (politici, burocrati), perseguendo il proprio interesse, necessariamente determinano una gestione inefficiente della finanza pubblica; non si può infatti escludere che quei soggetti siano guidati dal “public interest”, e a questo proposito Musgrave auspica la diffusione dei principi dell’etica kantiana. Nel complesso, egli ritiene che “fondamentalmente lo Stato fornisce le cose che la gente vuole che fornisca” e quindi che il modello delle preferenze individuali e della sovranità del consumatore possa essere accettato, anche se con giudizio, nello studio delle scelte collettive.
Più pessimista sull’attività pubblica è l’approccio di Buchanan, la cui origine si trova (secondo lo stesso studioso), oltre che in Wicksell, nelle opere degli studiosi italiani di Scienza delle finanze del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. Mentre la scienza economica rifletteva sul teorema dell’impossibilità di Arrow, Buchanan in Italia scopriva “i lavori classici italiani della Scienza delle finanze, con attenzione particolare ai modelli della politica”. E’ noto che sia la “public finance” sia la “public choice” trovano parte delle loro origini nei due approcci che caratterizzavano la Scienza delle finanze di quel periodo: quello “volontarista” e quello “politico-sociologico”, con i lavori, tra gli altri, di Mazzola, De Viti De Marco, Pantaleoni, Conigliani, Montemartini, Puviani.

Come si è detto, Buchanan ritiene che gli interessi particolari dei gruppi interni allo stato (burocrati, politici), ma anche le coalizioni di elettori (maggioranze) e le lobbies, comportino scelte collettive “inefficienti”. Anche se si prescinde da pratiche deteriori, la democrazia e i meccanismi del voto consentono lo sfruttamento delle minoranze (“le maggioranze trovano sempre facile sottrarre risorse alle minoranze”), per cui bisogna limitare il più possibile l’area delle scelte economiche collettive, e inoltre avvicinare il rispetto delle preferenze individuali (in assenza di unanimità) con l’introduzione di regole, possibilmente costituzionali, che limitano i poteri degli “special interests”. Tuttavia, anche se le procedure sono per lui molto importanti (mentre Musgrave è più attento alle combinazioni di variabili necessarie a ottenere i risultati cercati), Buchanan ritiene che sia impossibile individuare regole che impediscano lo “sfruttamento” dei contribuenti, attraverso i meccanismi delle decisioni collettive.
Il dibattito è stato ricco di molte altre osservazioni, tutte meritevoli delle riflessione non solo da parte dello studioso di Scienza delle finanze, ma anche del cittadino consapevole; si possono ricordare le questioni del federalismo fiscale, con particolare riferimento all’Europa, quelle dell’ottima struttura della tassazione e, infine, il dibattito dell’ultima giornata di discussione, quando i due studiosi, per rendere più chiare le loro “concordanze” e “discordanze”, espongono le rispettive concezioni di filosofia politica, andando oltre i confini della scienza economica.

All’approccio di “public choice” può anche essere attribuito il volume postumo di M.Olson(Power and ProsperityBasic Books,New York 2000), almeno per la parte, fondamentale, dedicata all’analisi degli effetti sull’economia del comportamento dei “governanti”, caratterizzato dall’ esercizio del potere di coazione nel perseguimento dei loro interessi particolari; l’originalità dell’approccio risiede nel modo in cui viene individuato l'”encompassing interest” dei governanti e nella sua applicazione all’evoluzione dei sistemi di potere (dall’anarchia, agli assetti predatori, alle varie forme di autocrazia, inclusa quella sovietica, alla democrazia). I governanti cercano di massimizzare il prelievo tributario utilizzabile per il perseguimento dei loro obiettivi e, a meno che non si tratti di predatori erranti, debbono tenere conto della produzione delle risorse e, quindi, dei connessi incentivi. La democrazia esprime i governanti maggiormente interessanti alla prosperità dell’economia, in quanto lo sfruttamento da parte della maggioranza raggiunge la massima efficacia se si rispettano certe relazioni tra le aliquote del prelievo e la crescita del prodotto complessivo. L’autocrate ha un “encompassing interest” alla crescita dell’economia minore di quello della maggioranza degli elettori di una democrazia (per una questione …. di numeri) e può anche accontentarsi di una minore estensione dell’attività finanziaria pubblica (necessaria per la ridistribuzione), e considerata la fornitura di beni pubblici (visti da Olson come mezzi di produzione, à la De Viti De Marco), utile alla crescita del prodotto complessivo, e quindi di beneficio per tutti. Questo “encompassing interest” rappresenterebbe, in altri termini, una “mano invisibile” nelle scelte collettive, parallela a quella del mercato, che può favorire la ricerca della prosperità; in questo Olson si distacca dalla visione pessimista sull’attività finanziaria pubblica, tipica della “Public Choice”. Naturalmente, condizione necessaria per questo esito è che sia assicurata l’esistenza di mercati “efficienti”, che non sono quelli “self-enforcing”, diffusi anche nei paesi poveri, ma quelli organizzati e regolati tipici dei paesi prosperi che assicurano la possibilità di concludere le transazioni più rilevanti per la crescita dell’economia; questi risultati sono favoriti da quelli che Olson definisce “market augmenting governments”. Di conseguenza, egli non apprezza le implicazioni del teorema di Coase sull’inutilità dell’intervento pubblico, teorema di cui critica sia i fondamenti logici sia il realismo delle ipotesi.
Molti altri aspetti del volume di Olson meritano profonde riflessioni (e apposite ricerche), che non è qui possibile neppure elencare, ma voglio ricordare l’analisi del sistema peculiare (implicito) di tassazione del lavoro che sarebbe stato decisivo, secondo l’autore per il mantenimento dell’autocrazia staliniana.
La lettura dei due volumi da un lato suggerisce alla ricerca vie da percorrere, anche utilizzando approcci che vadano oltre l’attuale sterile prevalenza metodologica della “economia del benessere”, dall’altro fa riflettere sulla necessità di vagliare criticamente le scelte proposte in materia di economia pubblica, troppo spesso non sufficientemente argomentate dai politici.

Fonte: Queste Istituzioni - Giugno 2001

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