F.S. Nitti, la Scienza delle finanze e la condotta economica dello Stato
di Antonio Di Majo
Università degli Studi Roma Tre
1. Introduzione
Cinquanta anni fa moriva Francesco Saverio Nitti ed è stata ricordata la sua figura di politico e di statista. Egli fu anche professore di Scienza delle finanze nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli, nominato nel 1899 alla conclusione di turbolente vicende accademiche, protrattesi per circa un decennio ; allo studioso di Scienza delle finanze sono dedicate queste pagine. Nitti economista è portatore di una concezione pragmatica (ma non per questo meno rigorosa di quella dei “teorici”) dell’attività pubblica, sia negli aspetti d’analisi sia nei “precetti” per la gestione delle finanze pubbliche. Al tempo in cui egli inizia l’attività accademica, il mondo degli economisti italiani è diviso dalla “disputa” sul metodo della scienza economica che durava, in diverse forme, da alcuni decenni , con implicazioni non solo teoriche, ma anche per gli indirizzi da imprimere alla politica economica. Il giovane Nitti si trova dalla parte della “Riforma sociale” (alla cui direzione era stato associato), rivista che si contrappone alla nuova serie del “Giornale degli economisti”, caratterizzata quest’ultima dalla predominanza degli economisti, marginalisti e liberisti, dell'”Associazione per la libertà economica” (Pantaleoni, De Viti De Marco, Mazzola, a cui faceva anche riferimento Vilfredo Pareto), apostoli intransigenti del liberismo economico e della lotta ad ogni forma di protezionismo nel commercio estero, di limitazioni alla libera concorrenza nel mercato interno, d’ingerenza dello Stato nella vita economica. Nitti ha un’impostazione lontana da coloro che cercano di definire una scienza economica “pura”, che prescinda dalle vicende storiche, ma non è nemmeno possibile assimilarlo al gruppo degli esponenti del “germanismo economico”, in particolare a quelli che in Germania sono definiti “socialisti della cattedra”, verso cui pure nutre qualche simpatia. Egli, infatti, mostra <
In generale, il suo approccio è antidogmatico (e non può quindi andare d’accordo con il liberismo dogmatico di gran parte degli economisti neoclassici) e, come ricorda F. Forte nella prefazione ai “Principii di Scienza delle finanze”, riediti circa trenta anni fa , <
I “Principi” rappresentano l’opera più importante di Nitti come studioso di Scienza delle finanze; pubblicati in sei successive edizioni (dal 1903 al 1926), adottati in numerosi paesi come libro di testo, sono caratterizzati da :
a) chiarezza di esposizione, principalmente nel senso di identificazione distinta e non equivoca di tutti gli elementi del problema (emblematica l’esposizione delle cause di aumento delle spese pubbliche, di cui si dirà tra breve);
b) ricchezza di dati statistici, correttamente analizzati (secondo le tecniche adottate in quei tempi), che consentono di valutare la rilevanza dei fenomeni e la comparazione nel tempo e nello spazio;
c) conoscenza rigorosa dei risultati dell’analisi teorica, bene integrati con gli altri aspetti, anche se l’assenza di formalizzazioni matematiche forniva ai critici elementi per mettere in dubbio lo spessore dello studioso ;
d) costante riferimento alle caratteristiche degli istituti di Finanza pubblica nei vari paesi, nel tentativo (riuscito) di offrire un testo “cosmopolita”.
La concezione, prima ricordata, che separa le leggi della produzione da quelle della distribuzione, ha conseguenze sull’individuazione dei compiti della Finanza pubblica: <<è opinione comune che la finanza pubblica deve non solo provvedere all'appagamento dei bisogni collettivi, ma anche agire utilmente sulla distribuzione della ricchezza: anche coloro i quali questa seconda cosa negano, riconoscono che in realtà le forme attuali della imposizione finiscono con agire assai spesso in tal senso>> . Questa osservazione, qui riferita all’imposizione, ha valore generale di impostazione dell’utilizzo degli strumenti della finanza pubblica nel perseguimento di obiettivi diversi da quelli derivanti dalla visione ristretta dei “fallimenti allocativi del mercato”.
2. La teoria generale della Finanza
Con la discussione delle “teorie generali relative ai fenomeni finanziari”, Nitti rivela la sua visione sui compiti che lo Stato deve svolgere: pragmatica e aliena da dogmatismi. Egli condivide con i marginalisti e i liberisti il rifiuto della teoria organicistica dello Stato e così si allontana dalle “esagerazioni” della scuola storica: <
L’analisi dei compiti allocativi della Finanza pubblica va affrontata tenendo presente la natura soggettiva dei “bisogni collettivi” e la teoria individualista del valore ; tuttavia <
Certamente Nitti non può essere “etichettato” come esponente di una scuola: come studioso maturo può essere considerato vicino ai “socialisti della cattedra” solo se si accetta la recente interpretazione di Musgrave sulla teoria economica di quegli studiosi, che non sarebbero portatori di una concezione “organicista” dei bisogni collettivi, ma farebbero piuttosto riferimento a “communal wants” (bisogni sentiti individualmente, ma in quanto membri di una collettività) . Certamente Nitti non dedica molto impegno agli estremismi teorici, anche perché è attirato dagli aspetti concreti del funzionamento del sistema economico: all’inizio del Novecento la sua riflessione si ferma sul fenomeno, che preoccupava molti “pratici”, della crescita delle risorse assorbite dai bilanci pubblici.
3. La crescita della spesa pubblica e del reddito nazionale
<> . La più nota ed efficace applicazione di quest’impostazione è quella utilizzata per la spiegazione dell’aumento di lungo periodo delle spese pubbliche. È molto conosciuta nella Scienza delle finanze la cosiddetta “legge di Wagner” sulla crescita della spesa pubblica. Questo “socialista della cattedra” sosteneva esserci una spontanea “statificazione progressiva”,dimostrata dal continuo aumento del peso della spesa pubblica (esprimibile come spesa pro-capite ovvero come rapporto tra spesa pubblica e reddito nazionale, oggi si preferisce il prodotto interno lordo) . Già in quel tempo, fine Ottocento/inizi del Novecento, quando il rapporto spesa pubblica/p.i.l. nei paesi sviluppati si aggirava intorno al 10-15 % , si era diffusa l’opinione della crescita inarrestabile delle Finanze pubbliche, che si sarebbe accompagnata all’innalzamento del reddito pro-capite della popolazione. Nitti, trattando con perizia i dati statistici, anzitutto mostra che (depurato di fattori impropri, come la diminuzione del valore della moneta, ecc.) il “peso” della spesa pubblica è effettivamente aumentato, se rapportato a quanto rilevabile al tempo dell’inizio della rivoluzione industriale, ma che questo fenomeno non è verificato (statisticamente) se il confronto è esteso a periodi più antichi . Nitti, in ogni modo, individua le ragioni della crescita (allora rilevabile) della spesa pubblica in:
a) le spese militari;
b) i debiti pubblici (con le conseguenze sull’onere per gli interessi annui dovuti ai sottoscrittori);
c) i grandi lavori pubblici legati al progresso tecnico, all’urbanesimo, ecc. e la legge di Engel sull’evoluzione dei tipi di consumi al crescere del reddito (condivisa da Wagner);
d) lo sviluppo di tutte le forme di protezione sociale.
Infine, una ragione precocemente individuata da Nitti e su cui sarà posta enfasi solo molti decenni dopo, specialmente dalla scuola di “Public Choice”, è la crescente partecipazione delle classi popolari alla vita pubblica (con l’estendersi del suffragio elettorale nelle democrazie). L’accresciuto peso elettorale dei ceti con reddito inferiore al reddito medio spinge la spesa vantaggiosa per la maggioranza dei votanti (quella con reddito non superiore a quello dell’elettore mediano), perché l’aumento della tassazione necessario a finanziarla pesa maggiormente (per la commisurazione delle imposte al reddito e ai patrimoni, per le esenzioni e agevolazioni, ecc.) sugli elettori, meno numerosi, con redditi più elevati . Questo effetto torna in gioco da allora ogni volta in cui si discute di dinamica della spesa pubblica: si dimostra la capacità anticipatrice di Nitti e la sua abilità ad individuare fenomeni trascurati dagli economisti del suo tempo .
Molto interessanti e in larga misura attuali sono anche le analisi sulle caratteristiche economiche dei vari tipi di spesa pubblica (quelle per l’istruzione, quelle militari, le pensioni, le spese per l’ambiente, ecc.), la cui lettura può essere ancora oggi consigliata, ma, per brevità, preferisco passare ora alle opinioni in materia di entrate pubbliche.
4. La politica tributaria
L’analisi delle entrate pubbliche consente, prima di tutto, a Nitti di riproporre la sua concezione generale della Finanza pubblica:<
Importanti le osservazioni sulla struttura tributaria. Il riferimento agli studi di Pareto sulla distribuzione, che mostrano la scarsa numerosità dei redditi elevati, lo porta a confutare l’opinione allora diffusa secondo cui si sarebbe dovuto fare affidamento principalmente sui prelievi su tali redditi per far fronte al finanziamento della crescente spesa pubblica. Va, invece, valutato positivamente il ricorso alle imposte indirette perché esse ottengono gettiti maggiori consentendo di raggiungere (anche sfruttando processi d’illusione tributaria) la totalità dei redditi. Tuttavia le imposte personali sul reddito hanno grande importanza e devono essere progressive. La progressività (che va applicata con esenzioni per i redditi minimi, agevolazioni per le famiglie,
) era allora giustificata da tre ordini di ragioni:
a) pratiche (per compensare l’inevitabile regressività del ricorso prevalente alle imposte indirette);
b) sociali (per modificare la distribuzione verticale dei redditi determinata dall’esistente assetto sociale, se lo si considerava iniquo);
c) economiche (poiché, come dimostrato da J. Stuart Mill, l’utilità marginale decrescente del reddito può richiedere, per l’eguaglianza del sacrificio del tributo, un’imposta che cresce più che proporzionalmente rispetto all’aumento del reddito).
Nitti condivide le ragioni di cui sub a) e c), ma respinge quelle di cui sub b): <
La progressività delle imposte va applicata alle imposte personali: <
Particolarmente efficace è la discussione di alcuni <
Molto moderne le opinioni sulla tassazione dei frutti del debito pubblico e, più in generale, delle attività finanziarie. Da questo punto di vista Nitti anzitutto ritiene <
Nell’ultima edizione dei “Principii” si manifesta anche una preferenza per l’indipendenza tra la tassazione delle società dei capitali e quella dei loro azionisti; ora diremmo, per usare la terminologia utilizzata dagli economisti nordamericani, che si preferisce il sistema “classico” di tassazione del profitto delle imprese societarie. È noto che quest’impostazione è prevalsa a lungo nella nostra legislazione e solo nel 1977 fu introdotta l’integrazione pressoché completa tra l’imposizione sui redditi delle persone giuridiche (imprese societarie) e l’imposizione personale degli azionisti (attraverso il metodo del credito d’imposta sui dividendi).
L’analisi delle caratteristiche dell’imposta sulla ricchezza mobile consente a Nitti qualche interessante osservazione sull’evasione del tributo in Italia, già oggetto dell’attenzione di uno studioso francese di fine dell’Ottocento . Egli osserva che l’imposta di R.M. era diventata formalmente progressiva (anche se non così concepita al tempo della sua istituzione) e questa considerazione poteva fornire una giustificazione all’ampia evasione da parte delle imprese e degli altri redditi “incerti e variabili” , anche se a dire il vero già al tempo dei primi tentativi di istituzione di questa imposta (nel Regno di Sardegna degli anni cinquanta dell’Ottocento) il problema dell’evasione dei redditi appariva molto rilevante. Osserva dunque Nitti (e si riferisce ai primi decenni del Novecento) che <
È interessante osservare:
a) l’assenza in Nitti di ogni ipocrisia e pregiudizio (spesso così presenti ancora oggi in Italia sia tra gli analisti della finanza pubblica sia tra gli uomini politici con competenze economiche, giuridiche e amministrative) nell’analisi dell’evasione fiscale;
b) che nulla sembra sostanzialmente mutato, dopo quasi un secolo, nel contrasto all’evasione nel nostro paese, mentre l’amministrazione finanziaria continua a occuparsi di condoni, studi di settore, ecc., invece di svolgere il compito severo e sereno di ottenere costantemente l’adempimento ,corretto e “giusto”, dei doveri tributari.
Né mi sembra che l’auspicio di Nitti secondo cui con un’imposta societaria separata da quella personale (ciò che è stato attuato pienamente nel 1973) si sarebbe potuta avere <
5. I debiti pubblici: realtà ed illusioni
La capacità di districare gli intrecci tra gli argomenti e di esporre con chiarezza i risultati sono ben espresse da Nitti nel capitolo sui debiti pubblici; poiché <
Come nota Forte, se Nitti osserva che <
a) la chiarezza con cui si distinguono rigorosamente i diversi elementi dell’analisi teorica del problema (anche senza utilizzare il linguaggio matematico);
b) l’ancoraggio alla realtà concreta dei sistemi di finanza pubblica, che permette di individuare effetti che i teorici dell’economia “pura” non riescono ancora a concepire (come quelli connessi con l’utilizzo dell’illusione finanziaria, per i quali è giustamente famoso Puviani)
6. Le imprese pubbliche
Un altro esempio efficace di dimostrazione dello spirito anti-dogmatico di Nitti si trova nell’analisi delle imprese pubbliche. Se si prescinde dalle interessanti considerazioni sulle attività demaniali e da quelle che, per ragioni di sicurezza (come le Poste di allora), nessuno considera estranee alla proprietà pubblica, così come dai problemi dei monopoli fiscali (ossia quelli che hanno l’obiettivo di assicurare forti cespiti di entrata ), le questioni più interessanti riguardano le <
Nitti non manifesta nessuna predilezione aprioristica per la proprietà di certe imprese, in particolare di quelle che oggi definiamo come operanti in condizioni di “monopolio naturale”. Questa condizione è individuata con l’esempio delle tramvie e delle condotte d’acqua: <
La costante capacità di separare le questioni “dottrinali” da quelle pratiche lo porta, dopo aver respinto ogni pregiudizio sulla proprietà pubblica, a mettere in guardia dai pericoli dell’esercizio pubblico, che sarebbe più esposto alla “burocratizzazione” dell’organizzazione: <
In un periodo in cui abbiamo vissuto un’intensa stagione di privatizzazione delle imprese pubbliche (spesso opportune per la collettività, sia per le ragioni da ultimo indicate sia per altre <
a) questa forma di previdenza rappresentava un bene di “merito” (come diremmo oggi) e quindi richiedeva l’intervento pubblico ;
b) la concorrenza in questo settore non comporta necessariamente la disponibilità di un bene più a buon mercato (<
Il fatto che nei paesi in cui esiste il monopolio pubblico <
7. Le finanze locali
L’articolazione territoriale del settore pubblico è trattata nei “Principii” in maniera complessivamente aderente all’ortodossia del tempo , anche se non mancano, come il solito, osservazioni originali, alcune delle quali sviluppate compiutamente e analiticamente dagli studiosi solo nei decenni successivi. In generale Nitti appare inclinare verso il “centralismo”; infatti, ribadito il carattere politico e coercitivo dello Stato, osserva che il principale ente di livello inferiore di governo, il comune, <<è un aggruppamento di famiglie con scopo essenzialmente economico e la cui formazione è dipesa quasi sempre da cause economiche>> . Come anticipazione delle più moderne analisi della finanza dei diversi livelli di governo, osserva che le entrate degli enti locali debbono rivolgersi a imponibili che tengano presenti <
Nitti è piuttosto cauto nei confronti delle imprese municipalizzate. Riconosce la loro diffusione in molti paesi e il beneficio che può derivarne in quei casi in cui, come per le imprese pubbliche in generale, la concorrenza non è possibile o dannosa, ma osserva che <
8. Squilibri territoriali e finanze pubbliche
Finora si è fatto riferimento alle diverse edizioni dei “Principii di Scienza delle finanze”, ma Nitti ha espresso le sue opinioni di studioso di Finanza pubblica anche in altre opere. Ci limitiamo a ricordare la questione dell’intervento pubblico per il riequilibrio territoriale, in particolare del nostro Paese. Come osservato recentemente da Magnani: <
La predilezione di Nitti per i “fatti” e le quantificazioni lo spinge a tentare valutazioni della “ricchezza dell’Italia” , nel complesso e nella sua distribuzione tra le regioni. In queste valutazioni, comparate con quelle eseguite da altri , egli cerca di ottenere misurazioni degli squilibri regionali in Italia (oltre che confronti con altri Paesi). Naturalmente stime statistiche di questo tipo, che sono molto difficili anche oggi, soffrono delle limitazioni del tempo, in termini sia di disponibilità di dati sia di metodologie statistiche adottate. Si richiedono numerose ipotesi soggettive ed approssimazioni che consentono accuse di arbitrarietà delle valutazioni . Nondimeno è apprezzabile che studi di questo tipo venissero effettuati fornendo qualche base empirica a decisioni di politica economica. L’analisi si spinge a confrontare l’onere delle imposte nelle varie regioni, concludendo che <
Sull’ “equità” della distribuzione regionale delle entrate e delle spese pubbliche si alimenta la polemica tra Nitti e i liberisti. Pantaleoni non ritiene che si debbano confrontare pressione tributaria e benefici delle spese pubbliche per ogni frazione del territorio, perché le spese si effettuano dove servono nell’interesse collettivo (<
9. Conclusioni
Francesco Saverio Nitti, uomo politico e statista di gran rilievo, professore, studioso di Scienza delle Finanze, prese parte al dibattito di circa un secolo fa sulla natura e le caratteristiche della scienza economica e sulle implicazioni per l’azione economica dello Stato. Si mantenne estraneo alle scuole che dividevano gli economisti italiani, accettando i contributi utili di tutti e la sua opera fu caratterizzata principalmente dalla predilezione per le analisi di carattere empirico, dense di elaborazioni statistiche e di comparazioni istituzionali; la sua attenzione ai “fatti” contribuì a rendere celebre e cosmopolita il suo testo di Scienza delle Finanze.
L’intreccio tra la conoscenza,anche teorica, derivante dall’attività accademica e l’ attività politica e di governo lo rese molto diffidente per la teoria economica “pura” (interesse prevalente degli economisti liberisti dell’epoca). D’altro canto egli criticava gli eccessi della scuola storica, per la quale nutriva qualche simpatia, non condividendone l’inclinazione verso visioni da “stato etico” e apprezzava invece la teoria soggettiva del valore e il metodo marginalista.
Non mostrò alcun interesse per la teoria dell’equilibrio generale, mentre intuì (senza poterli sviluppare) i legami tra le variabili macroeconomiche .
La Scienza delle Finanze è vista da Nitti come una disciplina economica che può aiutare il governo della Finanza pubblica nella ricerca di soluzioni concrete a problemi sia di allocazione sia di distribuzione delle risorse (compiti ridistributivi non ammessi in linea di principio dagli economisti della scuola liberista di allora).
L’opera di Nitti studioso di Finanza pubblica può essere sintetizzata con le parole che chiudono la Prefazione di Francesco Forte alla riedizione del 1972 del suo principale lavoro accademico (i “Principii”) che fornisce << l'eccellente dimostrazione di come sia possibile unire la qualità e la misurazione, l'interdisciplinarietà e la precisione, l'incisività polemica e la leggibilità al di là delle date e delle posizioni in cui la polemica è sorta. Sono, insomma, un esemplare e ben vivo manuale di Scienza della politica finanziaria>> .
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Fonte: Relazione al Cinquantenario.CdD giugno 2003