• sabato , 23 Novembre 2024

Giovanni Montemartini nella teoria e nella pratica dell’economia pubblica*

1. Introduzione e cenni biografici

Giovanni Montemartini, economista noto principalmente per la sua “Municipalizzazione dei publici servigi”, rappresenta una figura di spicco per la teoria della finanza pubblica ma anche per l’attività pratica nell’economia pubblica, esercitata nel primo decennio del secolo scorso. Nato nel 1867 a Montù Beccarìa, in provincia di Pavia, si laureò in Giurisprudenza a Pavia e approfondì gli studi economici prima a Roma (1892), sotto la guida di Maffeo Pantaleoni, e successivamente a Vienna (1893-1894), con Carl Menger. Nel corso dei suoi anni universitari aveva seguito le lezioni di Antonio de Viti de Marco (nel breve periodo in cui questi era stato all’Università di Pavia), che avevano attirato la sua attenzione sui problemi della Scienza delle finanze. L’insegnamento dei protagonisti italiani della “rivoluzione” marginalista dell’economia caratterizzò la parte metodologica della sua formazione. Nel 1894 Montemartini vinse un concorso per la docenza negli Istituti Tecnici e fu destinato a Foggia; si trasferì a Cremona e successivamente a Milano (1899).
Ottenne la libera docenza in Economia Politica e insegnò a Pavia. Fino al 1903 restò a Milano; socialista riformista, fu eletto consigliere dell’Umanitaria (come si vedrà più avanti), dove s’interessò principalmente di problemi di lavoro (promovendo anche studi sull’organizzazione del mercato del lavoro). Questa esperienza fu essenziale per fargli vincere il concorso per la nomina di direttore del neo costituito Ufficio del Lavoro presso il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (il vero Ministero dell’Economia di quell’epoca) e si trasferì a Roma. Collaborò alla “Critica Sociale” e alla “Nuova Antologia” e dal 1904 al 1910 fu redattore capo del “Giornale degli Economisti”, in quel periodo organo dei marginalisti italiani, nella quasi totalità liberisti intransigenti (si pensi a M. Pantaleoni), contrari all’intervento pubblico in economia e sostenitori della libertà degli scambi internazionali. Montemartini, pur appartenendo alla scuola marginalista, si caratterizza, come si vedrà, per una spiccata originalità che lo allontana da molte delle implicazioni di politica economica condivise da quegli economisti. Come funzionario pubblico, nel 1911 assunse anche la responsabilità di direttore generale dell’appena costituito Ufficio di Statistica (embrione dell’ISTAT di oggi) e in precedenza aveva partecipato alla fondazione dell’Istituto Internazionale di Agricoltura (antenato della FAO) insieme a Lubin, Luzzatti e Pantaleoni.

Nel 1907, seguendo la vocazione politica di socialista riformista (che condivideva con il fratello Luigi, più volte deputato, anche nel secondo dopoguerra), fu eletto (nella lista del “blocco democratico”) consigliere comunale di Roma e, nella giunta Nathan, divenne assessore ai servizi tecnologici (com’erano allora definiti i Servizi pubblici locali), dedicandosi, tra l’altro, alla costituzione delle aziende municipalizzate per l’elettricità (poi anche per l’acqua) e per i trasporti urbani. Lasciato l’assessorato (insieme ai socialisti riformisti) rimase consigliere comunale e nel luglio 1913 in una discussione, nell’aula Giulio Cesare, sui trasporti pubblici romani subì un malore che lo condusse alla morte, all’età di 46 anni.

La sua breve vita, molto intensa, ha lasciato un’importante eredità sia nella teoria sia nella pratica dell’economia pubblica, avendo contribuito ad alcuni rilevanti momenti della “modernizzazione” giolittiana dell’Italia.

In queste pagine ci si soffermerà prima sui suoi contributi alla teoria generale della finanza pubblica e a quella della municipalizzazione, poi brevemente sulla sua attività “pratica” e infine si cercherà di evidenziare i tratti ancora attuali del suo pensiero e della sua azione.

2. Teoria economica e teoria della finanza pubblica

L’intensa attività pratica di Montemartini affondava le radici in una solida formazione di economista teorico, che si accompagnò progressivamente ad un interesse crescente per l’utilizzo di analisi statistiche.
Come si è accennato, egli apparteneva per formazione al gruppo dei “marginalisti italiani” che, come ricorda Faucci ha “un carattere molto ideologico, specie se confrontato con il marginalismo inglese e francese”; per questi economisti il marginalismo non rappresenta solo un’innovazione <> (caratterizzata dall’utilizzo del calcolo differenziale nell’analisi delle scelte economiche), ma “è stato anche un metodo nuovo di affrontare questioni finanziarie e politiche in senso lato”.

Montemartini assume una posizione peculiare, poiché non condivide il liberalismo dogmatico degli altri economisti marginalisti (il cui “caposcuola” riconosciuto è Pantaleoni) e appartiene ai “socialisti marginalisti” (anzi n’è l’esponente più espressivo) “che hanno inteso il marginalismo non tanto come una nuova visione del processo economico, così come lo intendevano Pantaleoni e in parte Pareto, ma come una più attrezzata e sicura cassetta degli strumenti”.
È molto importante l’attenzione prevalente di Montemartini per i problemi dell’offerta (e quindi della produzione) , a differenza degli altri marginalisti più attratti dall’applicazione del marginalismo ai problemi della domanda (e, quindi, alle scelte dei consumatori); la pubblicazione più matura del suo periodo formativo è, infatti, quella sulle “produttività marginali”. Questa caratteristica, che può anche essere spiegata con il passaggio “dal marginalismo mengeriano a quello walrasiano” , assume un’importanza essenziale sia per lo sviluppo della sua teoria della finanza pubblica sia per l’indirizzo seguito nelle multiformi attività di amministratore pubblico (assessore, dirigente dello Stato).

Può anche essere interessante considerare l’approccio di teoria economica generale ponendosi dal punto di vista “socialista”. Montemartini dimostra di considerare il marginalismo come uno “strumento di lavoro” dell’economista, non come un’ideologia: “I socialisti osservano che i propugnatori dell’economia pura sono contrari alle loro dottrine, contrari in special modo alla loro teoria del valore e alle loro pratiche conclusioni…. Ma la condanna non dovrebbe toccare il metodo di ricerca, non dovrebbe intaccare i principi fondamentali dai quali l’economia parte, né combattere le leggi erette ormai assodate dalla scienza, la condanna dovrebbe piuttosto aver riguardo alle norme pratiche che gli economisti puri cercano trarre dai postulati scientifici”. Altro elemento essenziale dell’analisi della produzione di Montemartini è che “progredendo la sociale organizzazione, ciascuna economia, singola o collettiva, tende a diventare produttiva di quantità sempre minore e consumatrice di quantità sempre maggiore di beni”; la legge dei rendimenti decrescenti spiega alcune delle sue tesi in tema di organizzazioni pubbliche.
Il carattere di “marginalista anomalo” di Montemartini è confermato dalla disputa sulla storia delle dottrine economiche, e le “scuole” economiche, che lo oppose (anche se con molto garbo) a Pantaleoni. In questa sede interessa solo ricordare la sua differenziazione rispetto ai canoni dell'”economia pura” di Pantaleoni, perché ciò contribuisce a spiegare la sua teoria della finanza pubblica. Gli aspetti della questione, che porteranno Pantaleoni a sostenere che le leggi della scienza economica “sono – a somiglianza della scienza fisica – deduttive e universali” e quindi, volendo semplificare, a connotare la storia delle dottrine come una storia degli errori, sono state ampiamente discusse. In estrema sintesi, con Spoto, “le divergenze tra economisti, secondo Pantaleoni, non danno luogo alla formazione di scuole, bensì caratterizzano il grado di generalizzazione delle teorie nell’ambito del progresso della scienza economica; per Montemartini, invece, le divergenze tra economisti – e quindi l’esistenza delle scuole – sono causate sia dalle basi filosofiche dell’economista sia dal grado di generalità delle teorie” , in cui l’espressione “basi filosofiche” vuole ricordare in particolare le diverse concezioni politiche. Queste osservazioni rappresentano un altro “tassello”della formazione d’economista che porterà Montemartini a formulare una visione complessa dell’operare delle scelte economiche collettive, distinguendolo dagli economisti “puri” dell’epoca.

Come si è accennato, l’interesse prevalente per gli aspetti dell’offerta caratterizza le analisi economico -pubbliche di Montemartini; questo sia a livello di teoria generale sia nelle spiegazioni della teoria e della pratica delle municipalizzazioni. La sua teoria generale della finanza pubblica è collocata tradizionalmente all’interno di una delle due “scuole” in cui sono divisi gli studiosi di Scienza delle finanze dell’epoca, epoca in cui l’Italia era sicuramente all’avanguardia in questa disciplina. Le due “scuole” della Scienza delle finanze italiana possono essere distinte, con una certa approssimazione in:

a) Scuola “volontarista” (detta anche della teoria economica della finanza), che cerca di interpretare le scelte economiche collettive unicamente come riflesso dell’aggregazione di tutte le preferenze individuali, tentando anche di individuare regole di governo della finanza pubblica in grado di assicurare il soddisfacimento di tali preferenze. L’analogia rilevante sostanziale è tra la “sovranità del consumatore” del mercato competitivo dei beni privati e il perfetto funzionamento del sistema politico – elettorale nel “veicolare” le preferenze individuali nella formazione delle scelte economiche collettive, anche se a rigore solo nel caso dello stato cooperativo di de Viti de Marco si può escludere la presenza essenziale della coazione in tali scelte, mentre negli altri autori essa è sempre presente con varie modalità.

b) Scuola detta “politico-sociologica” (poiché attribuisce preponderanza ai gruppi, di vario tipo, nelle decisioni collettive) , secondo cui la finanza pubblica è governata nell’interesse di porzioni dominanti della popolazione (classi, ceti, gruppi di pressione, ecc.), che utilizzano il potere coercitivo per perseguire i loro obiettivi; naturalmente questi studiosi (più eterodossi tra di loro rispetto a quelli dell’altra scuola) sono influenzati dalla nascente “scienza della politica”, anch’essa fiorente in Italia (Mosca, lo stesso Pareto ecc.), che analizza, tra l’altro, la formazione e la rotazione delle élites dominanti.

Dal punto di vista della metodologia, la scuola “volontarista” è interamente marginalista (con l’ulteriore ricordata connotazione del marginalismo “italiano”), mentre più eclettica è la posizione dell’altro gruppo di studiosi. Montemartini, come si è detto, utilizza pienamente il metodo “marginalista”, ma considera le scelte collettive frutto della lotta per l’appropriazione, da parte di una “porzione” della collettività, di un particolare bene economico, la coazione, che consente di conseguire particolari benefici . Invece di ricercare le condizioni d’efficienza allocativa (nel senso della teoria dell’utilità dei consumatori – utenti), come fanno ad esempio Pantaleoni e Mazzola, Montemartini concentra la sua attenzione sulle condizioni della produzione (seguendo, come egli stesso ricorda, una linea di pensiero avviata da De Viti De Marco) e sugli incentivi ad organizzarsi per ottenere la coazione, connessi con la ricerca nella minimizzazione dei costi nella realizzazione degli obbiettivi dei ceti dominanti. Le decisioni collettive congruenti sono prese seguendo quei comportamenti che Montemartini razionalizza nella teoria dell’impresa politica.

3. Teoria dell’impresa politica e dell’imprenditore politico

“Montemartini spiega che i programmi politici sono imprese, solo che sono “politically based”, non “market based” . Bisogna osservare il funzionamento dello Stato come quello di una impresa industriale. L’impresa politica produce un bene di tipo particolare, la coazione, ossia “l’esercizio del comando nella e sulla società”, e la scienza delle finanze è, secondo Montemartini, la teoria delle imprese pubbliche.

Chi ricerca la coazione si comporta secondo il paradigma economico marginalista, mira in altre parole a massimizzare i vantaggi derivanti dall’esercizio di quest’attività (che comporta benefici e costi), perciò troverà un equilibrio in corrispondenza dell’eguaglianza del costo e del ricavo marginali dell’acquisizione di questo particolare bene. Il principio edonistico è applicato, ma da una porzione della società (ceto dominante), in forme diverse nelle varie tipologie di organizzazione politica (Montemartini ne individua quattro, come si dirà tra breve). Quali sono i benefici della coazione? La possibilità di distribuire coattivamente su altri soggetti i costi del conseguimento degli obiettivi dell’imprenditore politico, sostanzialmente attraverso l’utilizzo del sistema tributario. Poiché la coazione è un bene economico, si possono individuare le sue condizioni di domanda e di offerta. La domanda dei servizi dell’impresa politica è espressa da chi trova vantaggiosa la ripartizione dei costi, sopportati in alcune produzioni, su altre economie, paragonata al costo che devono subire per ottenere lo scopo. Questi imprenditori otterranno un profitto derivante dalla differenza tra il costo della coazione e la diminuzione di costo ottenuta passando quell’attività all’economia pubblica e addossando, per conseguenza, una parte dei costi su chi non ha i benefici (o non ne ha in proporzione) . “L’impresa politica offrirà servigi o beni fino a che la sua offerta uguagli la domanda di detti beni – le saranno offerti fattori produttivi fino ad eguagliare la sua domanda”. E’ una teoria di non agevole intuizione e non scevra di qualche contraddizione (Forte, 1986, specie p. 20; Da Empoli, 1984, p. 127). Più chiara è l’individuazione dei costi della coazione. Bisogna distinguere:

a) I costi dell’impresa;

b) I costi dei consumatori esterni al gruppo dominante;

c) I costi della collettività.

I primi comprendono i costi del “lavoro direttivo” (di chi attua le scelte), le spese per la coazione (compensi a chi esprime il potere coattivo pubblico e a chi organizza il consenso), e i costi (imposte, tasse, contributi) che anche chi appartiene al gruppo dominante deve sostenere, come tutti gli altri cittadini, per l’offerta di beni collettivi.
I secondi sono i costi subiti dai consumatori del servizio della coazione: “se i consumatori sono essi stessi produttori, e cioè imprenditori politici, i costi sopportati sono quelli del caso precedente”; se, invece, non sono produttori, allora gli utilizzatori della coazione debbono compensare l’imprenditore politico per ottenere la ripartizione coattiva di determinati costi sulla collettività, un esempio di questi utenti sono “i gruppi pressione organizzati”.
Infine i costi di cui sub c) che sono sostanzialmente le imposte che la collettività deve pagare per i servizi pubblici; in questo caso Montemartini distingue tra chi può scegliere i benefici pubblici (ad esempio, la maggioranza) e chi no (la minoranza). È vero che “chi è minoranza è solo potenzialmente nell’impresa politica. Secondo il concetto di Montemartini, tuttavia, se è pienamente abilitato al potere egli è compartecipe di una (potenziale) impresa politica di governo”.

L’insieme dei costi valutati dall’imprenditore politico e per lui rilevanti, confrontati con i benefici determina l’esistenza e la dimensione dell’impresa politica. Per meglio inquadrare le diverse possibilità d’organizzazione dell’impresa politica, Montemartini introduce quattro casi teorici rappresentanti la costituzione dell’impresa politica”.

1) Una sola persona (autocrate rinascimentale, principe medioevale, sovrano dispotico), che dovrà “mantenere degli armati, preparare materiali per la coazione, fornirsi di un congegno amministrativo complesso”.
2) Un gruppo o una classe economica “che si assume l’impegno per costringere la collettività a procacciare un reddito alla classe” (dominio classista, dominio coloniale), utilizzando la coazione.
3) “Un’impresa politica nelle mani di un gruppo o una classe, la quale, oltre che essere consumatrice diretta dei servizi dell’impresa, vende a consumatori non appartenenti al gruppo i servizi di coazione prodotti”.

4) Il quarto caso è quello “in cui tutta la collettività costituisce e partecipa all’impresa politica”. Montemartini a questo punto si chiede: “L’imprenditore è la collettività, ed il calcolo edonistico dovrà derivare dalla collettività stessa?”. Questo, che è il caso più diffuso oggi nei paesi sviluppati (democrazie con suffragio universale), richiede ancora la coazione poiché solo se le valutazioni “fossero identiche per tutti gli associati, sarebbe inutile l’azione dell’imprenditore politico; la coazione verrebbe a cessare e scomparirebbe qualunque organizzazione politica. Se perdura lo Stato vuol dire che la coazione è necessaria a far trionfare i bisogni della maggioranza. Il calcolo edonistico è allora solo quello di una parte della collettività, è quello della maggioranza”. Questa impostazione risente chiaramente dell’insegnamento di de Viti de Marco, dal quale Montemartini era stato profondamente influenzato.

Con l’esame del quarto caso, Montemartini precorre le moderne analisi sulle scelte economiche collettive nei sistemi democratici (come osservano Da Empoli 1984, Forte 1986, Wagner 2003), particolarmente quelle sviluppate dalla scuola di Public Choice. In questa direzione è interessante, cento anni dopo Montemartini, l’opera postuma di M. Olson in cui si discutono i meccanismi delle scelte economiche nei vari tipi di organizzazione sociale succedutesi nel tempo, inclusa la democrazia rappresentativa; il parallelo con Olson, fatte salve rilevanti differenze, è significativo perché entrambi, pur non condividendo l’idea dello “stato cooperativo” (o “neoclassico paternalista”) che opera nell’interesse di tutti, non arrivano a negare l’utilità collettiva (e non solo di una parte) dell’organizzazione politica anche al di là dello “stato minimo”; ciò spiega sia la consapevolezza di Montemartini dell’ utilità dell’attività nell’economia pubblica, sia la tesi di Olson secondo cui i regimi democratici ( anche in presenza della “tirannide della maggioranza”) sono quelli più favorevoli allo sviluppo economico .

4. La teoria della municipalizzazione

L’analisi economica dello Stato (“un’impresa industriale – il cui scopo è quello di ripartire i costi di determinate produzioni sulla collettività”) è estesa al Municipio. Montemartini non condivide l’opinione dei liberali tedeschi di allora secondo cui il Municipio è un semplice accordo economico, ma lo ritiene un’impresa politica. Con le sue parole : “Il Municipio è un’impresa politica, un’impresa che ha per scopo di ripartire coattivamente, su tutti i membri della Municipalità, i costi d’alcune produzioni” e, ancora “L’unica funzione del Municipio si è quella di distribuire coattivamente determinati costi. L’unico bisogno del Municipio si è quello di procacciarsi la forza coattiva per raggiungere il suo scopo”. Altre due caratteristiche sono segnalate: “Le produzioni sono contingenti al tempo, ed ai paesi, ed alle economie che, in un dato momento, costituiscono l’impresa politica. Il calcolo edonistico per determinare la convenienza economica di far sopportare i costi di una produzione alla municipalità è fatto dalle economie che entrano nell’impresa”. Infine: “Una produzione dicesi municipale (ed impropriamente parlasi di un bisogno municipale) quando il procacciamento dei prodotti avviene ripartendo i costi sulla municipalità. È il metodo di produzione che costituisce la natura dei cosiddetti bisogni municipali; non vi sono a priori dei bisogni privati e dei bisogni municipali”. Attraverso “lotte politiche e calcoli economici più o meno elaborati”, secondo la teoria della finanza pubblica vista nel paragrafo precedente, sono stabilite le attività municipali che la collettività deve finanziare e individuati i finanziamenti necessari (tributi, tariffe, …).

Logicamente successiva è, per Montemartini, la concretizzazione della spesa che può indirizzarsi verso: a) l’acquisto di beni e servizi nel mercato; b) la produzione diretta di beni e servizi.

In questo secondo caso “si ha il fenomeno della Municipalizzazione dei publici servigi” diretta allo scopo di procacciarsi beni e servizi ad un prezzo inferiore a quello “ottenibile collo scambio”.
Per analizzare il fenomeno, Montemartini considera separatamente una teoria economica, una teoria politica e una teoria finanziaria della Municipalizzazione; però, come osserva Da Empoli, “i diversi aspetti interagiscono ed è difficile distinguere in concreto tra gli uni e gli altri”. Si consideri la “teoria economica”; secondo questa le ragioni che possono far preferire l’impresa municipale a quella privata, perché più “efficiente” (nel senso di minori costi), sono di vario tipo, sia nel caso a) in cui la produzione sia rivolta a beni che servono direttamente allo svolgimento delle funzioni municipali (“produzione diretta semplice o ad economia”), sia nel caso b) in cui si producono beni e servizi che saranno venduti nel mercato (“produzione diretta complessa, o industriale”).
Nel caso a) le ragioni che spingono all’intervento pubblico possono essere: 1) la formazione d’accordi tra produttori privati per tenere i prezzi sopra il costo di produzione; 2)la necessità di assicurare la qualità del servizio; 3) le opportunità di contrastare lo sfruttamento dei lavoratori da parte delle imprese del settore; 4) evitare intermediazioni parassitarie. Si tratta, come si può notare, di gran parte degli ostacoli al pieno funzionamento della concorrenza, come si apprende nei manuali di microeconomia.
Nel caso b), in cui il costo di produzione è sopportato dai consumatori (utenti) del bene (servizio) venduto nel mercato (come osserva Montemartini, l’attività industriale soddisfa in questo caso solo una parte della cittadinanza), chi appropria la coazione utilizza il municipio per obbligare “la municipalità ad anticipare le spese di impianto e di amministrazione ed a sopportare i rischi dell’impresa”. La forza coattiva favorisce sì una parte, ma “imponendo alla municipalità soltanto i rischi di un’impresa e le anticipazioni, mentre gli altri costi di produzione, amministrazione, ammortamento sono addossati ai consumatori dei prodotti, in giusta proporzione al loro consumo”. Le ragioni che possono far preferire la municipalizzazione all’offerta privata, possono essere:

1) L’eccesso di concorrenza nel mercato;

2) l’impossibilità per i consumatori di controllare il costo e/o la qualità del prodotto;

3) gli effetti negativi di produzioni che tendono al monopolio.

Per evitare di essere considerato un avvocato della municipalizzazione ad ogni costo, Montemartini osserva che è il “Municipio (che) deve, caso per caso, provare la convenienza e la sussistenza delle cause che spingono alla produzione diretta”; inoltre “quando si saprà che il Municipio non si induce a produrre direttamente, se non in quei casi in cui il sistema liberistico è soggetto a fallimento, l’iniziativa privata non verrà compressa”. È evidente che l’opportunità delle municipalizzazioni va valutata caso per caso, tenendone in considerazione i costi comparati.

Per chiarire cosa intendesse per “eccesso di concorrenza” (o concorrenza volgare o impropria), Montemartini la definiva come “rivalità tra produttori diretta a ottenere vantaggi a scapito della collettività…. Essa ha per scopo non di abbassare i prezzi in modo permanente, ma di eliminare solamente un avversario dal mercato” e, quindi, “produce, in ultima analisi, gli stessi effetti del monopolio”.

La quantità e il dettaglio degli argomenti inclusi nel volume di Montemartini sono impossibili da riassumente in questa sede; per la rilevanza ancora attuale si vogliono sinteticamente ricordare alcune questioni:

a) La politica tariffaria;

b) l’efficienza della produzione delle municipalizzate;

c) il controllo delle imprese private monopolistiche.

I prezzi dei prodotti delle municipalizzate dovrebbero essere fissati in modo da eguagliare il costo di produzione. Questa “regola” tariffaria può essere considerata da due punti di vista:

1) Come conferma dell’approccio che privilegia l’analisi della produzione, non del consumo. Montemartini trascura completamente le possibili economie esterne di consumo connesse con i prodotti forniti dall’impresa municipalizzata, quelle che facevano suggerire nella stessa epoca ad Einaudi la possibilità di una tariffa inferiore al costo “privato” di produzione (c.d. prezzo politico), con il disavanzo da coprire con il gettito dei tributi.

2) Un prezzo superiore o inferiore al costo di produzione è da evitare, anche per l’arbitrarietà della distribuzione delle perdite e dei profitti così originati; infatti “un prezzo inferiore farebbe pagare il consumo di alcuni cittadini ad altri, che pur non sono consumatori” (perché egli esclude che possano esistere consumi di carattere veramente generale) e “un prezzo superiore al costo equivarrebbe a un’imposta indiretta, con tutti gli svantaggi di questa forma di imposizione, e con l’ulteriore difficoltà di decidere come utilizzare i profitti”. Inoltre la fissazione di prezzi inferiori a quelli praticati dai monopolisti privati consente di espandere la produzione, sfruttare le eventuali economie di scala e, quindi, assicurare una maggiore disponibilità del bene (come si può notare la sequenza va dalla produzione al consumo, coerentemente con il punto di vista preferito da Montemartini).

Le analisi teoriche non possono fornire una risposta al quesito sulla maggiore o minore “efficienza produttiva” delle municipalizzate rispetto alle imprese private, se ci si riferisce ad un uso più efficiente dei fattori produttivi (con le ovvie implicazioni sui costi). È quindi inevitabile attendersi che Montemartini respingesse le “obbiezioni in genere fatte dai liberisti assoluti, i quali non ammettono che si possa discutere il principio assiomatico che il Municipio è cattivo produttore”. A riprova delle sue opinioni egli esaminava le esperienze del tempo, maturate in diversi settori produttivi e in vari paesi. In particolare l’attenzione si soffermava sugli Stati Uniti e sulla Gran Bretagna, che consentivano di osservare due realtà molto diverse: per varie ragioni, moltissime imprese municipalizzate americane erano controllate da gruppi politici e sindacali spesso corrotti, mentre la Gran Bretagna mostrava numerosi casi di imprese ben gestite e produttive. Le risposte andavano, quindi, trovate nella realtà e, a questo proposito, il volume di Montemartini era prodigo anche di consigli su come rilevare i dati (statistici) necessari a valutare la situazione economica delle imprese municipalizzate (dai trasporti all’energia, all’acqua, al pane, ecc.)

Alla questione del “controllo sulle imprese private monopolistiche”, come alternativa alla municipalizzazione è dedicato un intero capitolo. Con le sue parole; “invece della produzione diretta, non sarebbe più conveniente l’intervento del Municipio esercitante una funzione di controllo di fronte all’impresa privata? In questo modo si manterrebbe all’industria lo stimolo del tornaconto individuale, si eliminerebbero i danni del monopolio, non si incorrerebbe nel pericolo di creare un’impresa poco produttiva ed inquinata da moventi politici, e dai moventi egoistici ed immorali da parte degli amministratori”. Come il solito, Montemartini non assume un atteggiamento dogmatico, ma discute ampiamente (anche con riferimento all’esperienza nordamericana) le difficoltà di regolazione del monopolio:”un’impresa privata monopolistica è condannata fatalmente a vegetare, a sfruttare le condizioni di monopolio, a trascurare occasioni di miglioramento, a non proseguire più gli sforzi per diminuire i costi, per ribassare i prezzi, per aumentare i consumi, per rendere sicuri e facili i servizi. Si tratta di vedere se il controllo può assicurare al pubblico, da parte delle imprese private concessionarie, dei servizi sicuri, efficienti, e poco costosi”. La risposta pratica all’epoca fu quella di scegliere spesso le municipalizzazioni, dopo aver considerato “le difficoltà psicologiche e morali del controllo”. La scelta tra le due possibilità (assunzione diretta e regolazione del monopolio privato) non era, però, risolta una volta per tutte e aprioristicamente. Era ribadita la relatività delle scelte della municipalizzazione, la cui convenienza doveva essere valutata caso per caso. All’epoca in cui Montemartini scriveva non si poteva approfondire la questione della separazione tra impianto (o rete) ed esercizio, per eliminare gli effetti dei sunk costs sulla contendibilità del mercato, anche se Montemartini prendeva in considerazione il caso della “proprietà pubblica di un impianto, senza corrispondente esercizio pubblico”.

L’opera di Montemartini contribuì a creare un clima favorevole all’approvazione della legge Giolitti sulle municipalizzazioni (l. 29/03/1903, n. 103) che, però, previde che nel caso di passaggio da un’impresa privata concessionaria ad un’impresa municipalizzata, il Municipio avrebbe dovuto pagare un indennizzo pari al valore dell’impianto e al lucro cessante, calcolato sulla media dei profitti dichiarati nei cinque anni precedenti e commisurato al numero di anni in cui la concessione sarebbe rimasta in vigore. Per evitare le pesanti conseguenze di questa norma sulle finanze comunali, Montemartini propose “la creazione di aziende municipali che si ponevano in concorrenza con le società private, in modo da costringere queste ultime a desistere da comportamenti monopolistici”, e così egli si regolò a Roma (come si dirà qui di seguito).

5. L’attività politica e di amministratore pubblico

L’esistenza di una rigorosa coerenza e di una continua interazione tra la formazione teorica e l’attività politica di Montemartini è stata recentemente riproposta negli scritti apparsi nel trentacinquesimo volume degli Annali della Fondazione Feltrinelli, dedicati a “Marginalismo e Socialismo nell’Italia liberale (1870-1925)”. Nel saggio di A. Cardini si osserva che l’incontro “tra marginalismo, riformismo e socialismo, (fu) ripreso da G. Montemartini, che nel primo Novecento riunì in sé i caratteri e gli aspetti del funzionario di Giolitti, del socialista di Turati, e dell’economista marginalista…. L’impiegato ministeriale giolittiano e il socialista turatiano si ricomponevano in lui sul terreno proprio dell’economia…. G. Montemartini mantenne riunite nel suo pensiero e nella sua attività le componenti giolittiana e socialista, …, e le conservò anche dopo il verificarsi della separazione tra economisti e socialisti”.
La parte d’attività pratica non dedicata alla municipalizzazione e alla finanza locale fu prevalentemente assorbita dai problemi del lavoro. Di questi problemi Montemartini iniziò ad occuparsi concretamente quando (nel 1901) fu eletto consigliere della “Società Umanitaria” di Milano, dove assunse la presidenza della V sezione (che si sarebbe interessata degli Uffici di collocamento e del lavoro). In questa sede Montemartini maturò una importante esperienza di conoscenza del funzionamento del mercato del lavoro e propose l’istituzione di un apposito ufficio che permettesse di “ottenere il controllo del mercato del lavoro, facendo in modo che ogni mestiere, trattato come organismo di difesa, potesse prepararsi le condizioni economiche indispensabili a sviluppare la propria politica di salari”. Le travagliate vicende dell’Ufficio del lavoro dell’Umanitaria aprirono, comunque, la via a un ruolo pubblico nel mercato del lavoro, che ne facilitasse il funzionamento “efficiente”, anche con l’aiuto di indispensabili analisi statistiche basate su un’articolata raccolta di dati sulla domanda e sull’offerta di lavoro.
Approvata la legge (Zanardelli) sull’istituzione dell’Ufficio governativo del Lavoro, presso il Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio, e del Consiglio Superiore del Lavoro, a capo di tale ufficio (embrione del futuro Ministero del Lavoro) fu nominato nel 1903 Montemartini, che ne mantenne la direzione fino alla morte. Com’è stato osservato, l’Ufficio del Lavoro fu avviato con una circolare del Ministero Baccelli, ma “linguaggio e contenuti della circolare rendono subito evidente come il ruolo del ministro Baccelli nella sua preparazione non andasse al di là dell’apposizione della firma e come il suo reale autore non potesse essere altri che Giovanni Montemartini, che durante quella stessa estate aveva preso possesso della divisione dell’Ufficio del Lavoro. La sua nervatura culturale è la sintesi dei motivi che avevano ispirato il suo lavoro di economista negli anni immediatamente precedenti e la sua breve esperienza di fondatore e direttore dell’ufficio del Lavoro della Società Umanitaria”. L’efficace funzione del “collocamento” nella riduzione della disoccupazione fu una preoccupazione costante dell’attività di Montemartini nel decennio in cui diresse l’Ufficio del Lavoro; alla base della sua azione era l’idea che il “lavoro organizzato sarebbe diventato uno dei gruppi socio – economici della società industriale, in cui il complesso di funzioni dei diversi gruppi e di interazioni fra essi avrebbe reso difficilmente realizzabile un rovesciamento di rapporti tra capitale e lavoro ed invece avrebbe reso possibili iniziative di riforma” . I primi dieci anni di vita dell’Ufficio del Lavoro furono ripercorsi dallo stesso Montemartini in uno scritto apparso postumo e i risultati furono illustrati dal Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio (F.S. Nitti) in una relazione al Parlamento nello stesso 1913. In sintesi, si può ricordare che “sotto la sua guida l’Ufficio divenne un centro studi sui problemi socio-economici del lavoro nelle società industrializzate, di rilevazioni a tappeto sulle questioni che si ponevano nell’evoluzione industriale della società italiana, di raccolta di materiali documentari sullo sviluppo della contrattazione collettiva, di elaborazione di prima bozza di disegni di legge sulle riforme socio-economiche attinenti al mondo del lavoro”

Il periodo romano di Montemartini si caratterizza, oltre che per la direzione dell’Ufficio del lavoro e della Direzione di statistica del Ministero dell’Agricoltura, per l’attività politica nel consiglio comunale, dove fu eletto nel 1907 nella lista del “blocco democratico”. Come socialista riformista ed esponente della maggioranza, egli diventa assessore ai “servizi tecnologici”, ossia alle attività imprenditoriali municipali, nella giunta guidata dal sindaco Nathan. Per comprendere cosa spinge lo studioso d’economia pubblica e “grand commis” dello Stato ad impegnarsi nell’attività politica locale e nell’amministrazione comunale, bisogna far riferimento alla “cultura” dei socialisti riformisti dell’epoca. Per varie ragioni, ben illustrate da Degl’Innocenti , il socialismo riformista del periodo a cavallo tra fine Ottocento e inizi del Novecento è fortemente interessato alle amministrazioni locali, tanto che quella corrente politica viene spesso individuata come “socialismo municipale” . Le motivazioni, che fanno particolare riferimento allo stesso Montemartini, sono così sintetizzate: “ci preme richiamare l’attenzione sulla relazione, esplicitata o sottintesa, tra sviluppo economico e libertà democratiche, dove l’autonomia dell’ente locale finiva per assumere un significato tutto particolare tra modernizzazione, sviluppo produttivo e industriale, e consolidamento delle prerogative degli enti locali, all’interno dei quali sarebbe maturata una nuova classe dirigente fra i ceti operai della società, come indicava, tra gli altri anche Giovanni Montemartini” . È l’opera teorica e l’attività pratica sulle municipalizzazioni a far considerare Montemartini la figura di spicco di questa tendenza del socialismo italiano.
Il desiderio dei socialisti riformisti europei di partecipare alle amministrazioni locali nasceva dall’abbandono, da parte loro, delle teorie catastrofiche sullo sviluppo del capitalismo, sicché “l’obiettivo del governo locale entrava ormai a far parte del patrimonio politico della socialdemocrazia europea, sia pure nelle diverse specificità delle varie realtà nazionali e soprattutto in relazione con i diversi ordinamenti giuridici e politici vigenti” . Nel nostro paese in particolare, i socialisti “avevano inteso l’evoluzione dell’ente locale agli inizi del secolo, cercando di indirizzarlo nell’ambito della lotta per lo sviluppo economico, trasferendogli poteri sempre più ampi di intervento attivo e per la democratizzazione delle strutture istituzionali, nonché facendone il terreno decisivo per l’allargamento delle basi sociali dello Stato liberale post-unitario, per il superamento graduale del divario tra politica e società” . Queste premesse etiche-politiche spiegavano l’impegno di Montemartini nell’amministrazione romana.
Come detto, egli fu eletto nel 1907 e restò consigliere comunale fino alla morte avvenuta nel luglio 1913, in conseguenza di un’emorragia cerebrale che lo colpì durante una discussione, in consiglio, sui trasporti pubblici romani.
Da consigliere e assessore, s’impegnò nelle diverse innovazioni decise dalla giunta Nathan , ma la sua opera è oggi ricordata prevalentemente per l’impulso dato alle municipalizzazioni. La sua importanza è riconosciuta anche in un recente volume di Annali della Storia economica d’Italia , dove si caratterizza il 1903, nel campo dell’intervento pubblico, con la legge Giolitti sulle municipalizzazioni, correttamente collegata alla pubblicazione da poco avvenuta del volume di Montemartini; si osserva, infatti, che “l’intensificazione della crescita urbana, lo sviluppo delle public utilities, l’affermazione del socialismo municipale e di nuove élites tecnico-amministrative portatori di istanze di modernizzazione, confluiscono sin dalla fine dell’Ottocento nella intensa campagna a favore dell’assunzione diretta di pubblici servizi da parte dei comuni. Nel 1902 Giovanni Montemartini pubblica…(l’) opera nella quale l’idea della municipalizzazione trova solide fondamenta teoriche” .
L’azione di Montemartini nell’attuazione della municipalizzazione dei trasporti pubblici e dell’elettricità fu piuttosto energica, ma solo in parte i risultati corrisposero alle sue attese. La legge Giolitti rese possibile l’attività di queste imprese, ma pose un ostacolo piuttosto complesso al passaggio d’imprese private “monopolistiche” alla gestione comunale, a causa, della cennata gravosità dell’ indennizzo da corrispondere ai privati proprietari. Nel caso dei trasporti locali, Montemartini pensò allora alla costituzione di un’azienda comunale operante in concorrenza con la Società Romana Tramways-Omnibus (SRTO) e questa soluzione si mostrò risolutiva. Molto più complesso e contrastato fu il caso dell’Azienda Elettrica Municipale (antenata di quella che sarebbe diventata l’ACEA); anche in questo caso l’azienda municipalizzata si affiancò all’impresa privata fino allora monopolistica, ma le resistenze all’attività anti-monopolistica della prima furono particolarmente agguerrite e riuscirono a ridimensionare il conseguimento degli obiettivi voluti da Montemartini. Bisogna ricordare che in quell’epoca la municipalizzazione incontrava in Italia un favore generalizzato, anche se con motivazioni diverse, nei partiti politici: “da una parte vi erano gli amministratori della destra liberale che, di fronte al corrente bisogno di ammodernamento dei centri urbani, dovuto all’incremento demografico e alle prime, consistenti migrazioni della popolazione nelle città, furono costretti a procedere alla municipalizzazione di un’ampia gamma di servizi locali, in modo da non alterare il precedente sistema di potere, dall’altra vi erano i sostenitori del cosiddetto socialismo municipale, di coloro cioè che consideravano la municipalizzazione come un importante strumento di lotta contro le rendite dei monopoli privati” . In particolare, a Roma “nel clima caratterizzato dall’inedito protagonismo dell’intervento dello Stato nel Sud… e dalle proposte nittiane di nazionalizzazione dell’industria elettrica, il ceto politico capitolino sembrò trovare la forza di contrastare la tradizionale posizione governativa…ostile allo sviluppo industriale di Roma e all’insediamento di concentrazioni operaie nella capitale” . La questione della municipalizzazione dell’elettricità si trascinò molto a lungo; Montemartini giustificò le costruzioni della centrale termica all’Ostiense e di quell’idroelettrica a Castelmadama con la scarsa offerta d’energia (indispensabile anche per l’esercizio dei tram e per l’illuminazione pubblica) da parte della società privata e con gli alti prezzi da questa ovviamente praticati (anche nei confronti dello stesso Comune). Il Comune di Roma, quindi, accettò la costituzione dell’Azienda, ma, contrariamente alle aspettative di Montemartini “il pragmatico Nathan – alfiere delle municipalizzazioni caso per caso, e ostile tanto ai municipalizzatori per partito preso quanto all’idea del riscatto degli impianti privati, giudicata eccessivamente socialistica, propendeva apertamente per una soluzione che evitasse lo scontro aperto con la SAR e una reciproca e rovinosa concorrenza”. La necessità di non compromettere tali relazioni occasionò un aspro conflitto tra Nathan e Montemartini; quest’ultimo propose l’obbligo per i costruttori di nuovi quartieri di servirsi dell’Azienda municipalizzata fin dal 1910, ma Nathan “si rivelò apertamente scettico sulle capacità dell’azienda…ed esplicitamente ostile all’ipotesi di un’esclusiva a suo favore”. E, come si è osservato, “la sistemazione definitiva dei rapporti tra SAR e Campidoglio venne raggiunta nei primi mesi del 1912 e rappresentò un’eclatante vittoria per la società privata”. Nel 1912 matura anche la rottura del blocco democratico e i socialisti riformisti (anche per la crescente influenza nel PSI dei socialisti rivoluzionari che ottengono la nomina di Mussolini alla direzione dell'”Avanti”) sono costretti ad abbandonare la giunta; Montemartini manterrà l’incarico di consigliere comunale per il breve periodo che gli resta da vivere. Nel governo di Roma egli s’interessò attivamente anche dell’acqua e delle abitazioni, ma certamente il conseguimento di molti obiettivi fu condizionato dall’abbandono della giunta e, infine, dalla prematura scomparsa.

6. L’eredità dell’opera di Montemartini

Poco più di un secolo fa fu pubblicato il volume sulle Municipalizzazioni, l’opera più conosciuta di Montemartini, e poco più di novanta anni fa egli cessava di vivere nel pieno della sua attività di consigliere comunale di Roma e d’alto dirigente dello Stato. A distanza di tanto tempo, quale parte del suo insegnamento si può ritenere ancora viva, nel senso che la direzione da lui impressa (ovviamente non da solo) a certe linee di pensiero e d’azione può ancora essere riconosciuta?
Sul piano della teoria della Scienza delle finanze, il suo approccio (positivo) alla spiegazione dei meccanismi di scelta economica collettiva è ben vivo, molto di più di quanto non fosse ai tempi in cui egli scriveva. La scuola di “public choice” riconosce il suo contributo pionieristico; in particolare, come si è visto, lo stesso Buchanan riconosce Montemartini come uno dei suoi ispiratori. Inoltre, si è osservato di recente che:”seguendo Montemartini….possiamo distinguere tra i casi in cui le scelte del bilancio pubblico sono favorevoli a tutti da quelli in cui sono favorevoli ad alcuni e dannose per altri” .
Com’è noto, quest’approccio è normalmente pessimista sull’utilità generale delle scelte collettive e, perciò, predilige la minimizzazione dell’ammontare di risorse allocate attraverso i bilanci pubblici. Questo atteggiamento (normativo), che si contrapponeva alla metodologia del “paternalismo benevolente” degli economisti neoclassici, non era condiviso da Montemartini. L’intervento pubblico era auspicato sulla base delle “aspirazioni, speranze, forse anche illusioni, di Montemartini, che vuol cambiare non soltanto le istituzioni, ma anche gli uomini, facendoli divenire migliori”; tuttavia, vanno ricordati gli sforzi di studiosi contemporanei, come Olson, che, pur condividendo l’opinione che le scelte collettive sono sempre compiute nell’interesse di parte dei cittadini e non rispettando, nemmeno tendenzialmente, le preferenze di tutti gli individui, non ritengono necessariamente “nocive” l’allocazione e la ridistribuzione delle risorse attuate attraverso lo Stato; ad esempio, quest’autore mostra come nel passaggio dai regimi autocratici a quelli democratici l’interesse egoistico della maggioranza può comportare scelte collettive vantaggiose per tutti (in termini di crescita del reddito nazionale), senza che gli uomini debbano necessariamente diventare “migliori”.
In questo modo si continua nel solco tracciato da un marginalista come Montemartini senza che sia necessario, per superare l’inefficacia “normativa” della scienza economica, il ricorso a consolatorie “funzioni del benessere sociale”.
Sul piano dell’attività pratica, la ricerca dell’eredità di Montemartini si ferma anzitutto sulle vicende delle imprese municipalizzate. Nel corso del secolo trascorso dalla legge Giolitti le imprese dei Servizi pubblici locali hanno vissuto diverse fasi. L’istituto ha rivelato certamente una durevole vitalità, anche se negli ultimi decenni il modello ha mostrato molti limiti, che ne hanno messo in pericolo l’efficienza e l’economicità. In parte, questi limiti erano stati individuati dallo stesso Montemartini, in particolare quando si opponeva strenuamente a politiche tariffarie in disavanzo o quando metteva in guardia sulla necessità di una corretta gestione dei rapporti di lavoro ( non “burocratici”) nelle imprese e sui pericoli della corruzione, ma le conseguenze della mutata situazione in cui queste imprese avrebbero operato non potevano essere previste da Montemartini.
L’evoluzione tecnologica, che comportato in molti casi economie di scala e di varietà molto maggiori delle diseconomie di crescita (i”compensi decrescenti”, in termini di produttività marginali) ha, tra l’altro, reso evidenti i limiti della dimensione municipale e della azienda monoprodotto. Come si è visto Montemartini non era un “municipalizzatore per partito preso” e, quindi, avrebbe molto probabilmente tenuto conto delle mutate condizioni, senza essere favorevole alle “privatizzazioni per partito preso” . Le sue parole sono efficaci: “ho dovuto …dimostrare che il Municipio in certe condizioni è produttore più economico dell’imprenditore privato… e che il controllo dell’autorità politica sulle imprese private non è (spesso) sufficiente ad eliminare gli inconvenienti di certe condizioni monopolistiche”.
Gli altri risultati dell’attività di Montemartini, nell’ufficio del Lavoro, nella Direzione di Statistica,ecc. vivono nella continuità delle Istituzioni allora avviate; la sua vita politica può essere valutata solo nell’appropriata sede storica, ma anche in questo campo si deve rimarcare l’ impegno etico – politico al servizio del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e di quelle generali del vivere civile, impegno che non è così largamente diffuso da consentirci di considerare irrilevante la sua eredità.

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Fonte: Paper - Università Roma Tre - Settembre 2004

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