E’ onestamente difficile, per chi non abbia pratica di vicende contrattuali, capire perché un contratto come quello dei metalmeccanici che arriva a dare ai lavoratori una cifra molto vicina a quella richiesta dagli stesi, sia causa di tensioni e dissidi. Certo, chi conosce le notti bianche delle lunghe trattative e le estenuanti lotte sulle parole, sulle congiunzioni e sulle virgole, capisce subito la differenza tra il contratto firmato da Federmeccanica, che ha spaccato il sindacato, e quello firmato con la Confapi, che invece è stato sottoscritto unitariamente. Ma dubito che questa differenza sia significativa per chi deve affrontare la vita di tutti i giorni.
Per le imprese si tratta comunque di un contratto oneroso, giacché si è finiti per accettare le richieste sindacali sul piano economico, e per i lavoratori è un aumento che, sul piano reale, risulta pur sempre ridimensionato dalla crescita dell’inflazione. La differenza è tutta politica e non c’è dubbio che il contratto di Federmeccanica introduca una possibile flessibilità futura da giocare nel contratto successivo. Questa differenza traduce chiaramente le difficoltà che incontra nel nostro paese il processo contrattuale: ci si divide non tanto sui soldi, quanto sugli espedienti che servono a salvaguardare o a guadagnare posizioni di forza in vista dei prossimi contratti.
Avendo un passato da negoziatore, non nego l’importanza di questi espedienti e so bene che possono rappresentare elementi di un certo peso in un futuro contratto. Ma così facendo si perpetua un sistema di relazioni industriali intricato, condito di sospetti, ove chi contratta non bada solo agli elementi più percepibili dai propri iscritti ma tenta di precostituirsi posizioni di vantaggio in vista di prossime scadenze: i sindacati attraverso i contratti aziendali, ove spesso si cerca di recuperare quanto si ritiene di non aver avuto nei contratti nazionali, e le imprese nei contratti nazionali, ove si cerca di mettere dei paletti di difesa per frenare i costi che inevitabilmente aumentano a livello aziendale.
Così facendo, costruiamo modelli contrattuali complessi, pieni di clausole ed elementi atipici, fatti più per difendersi dai problemi presunti attacchi che per risolvere le questioni sul tappeto. Il rischio è che ogni contratto apra una nuova controversia invece di chiudere quella precedente con il risultato di generare oneri per le imprese e scarsa soddisfazione per i lavoratori. Credo che sia tempo di semplificare il sistema, partendo proprio dallo spirito con cui si concluse nel 1993 l’accordo sulle nuove relazioni industriali. Allora si trattava di sciogliere un sistema di relazioni industriali compromesso dall’esistenza della scala mobile: si trovò un accordo importante, ma il modello che ne derivò mantenne alcune complessità derivanti anche dalla sfiducia reciproca con cui si affrontava un nuovo sistema, abbandonando le sicurezze implicite nell’indicizzazione. Così si arrivò a due livelli contrattuali predeterminati (uno nazionale e uno aziendale) con confini labili e sovrapposizioni non risolte. Il risultato lo si può leggere sulla busta paga, complicata di voci note solo agli esperti.
Oggi dovremmo fare un passo in avanti, non per rimettere in discussione l’accordo del 1993 che ha rappresentato un passaggio importantissimo per il risanamento del Paese e per il recupero della occupazione, bensì per proseguire sulla strada tracciata allora verso una semplificazione degli istituti contrattuali. Si saprà recuperare lo spirito dell’accordo del 1993? Le recenti vicende, con le fratture nel mondo sindacale e la voglia di sciopero che circola in certi ambienti, sembrerebbero indicare una risposta negativa. Eppure anche l’accordo del 1993 venne dopo momenti di fortissime tensioni. Allora, accanto alla determinazione di far cessare la scala mobile, c’era anche una forte visione a costruire nuove regole. E’ questa visione che va recuperata per non impantanarsi in continue dispute e tensioni.
Contrattazione, meglio rivedere l’intero sistema
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