• venerdì , 18 Ottobre 2024

Regno Unito: la fabbrica del lavoro

Al mattino di giovedì 25 marzo si sono presentati a Portcullis
House, per un’ audizione della Commissione Tesoro della Camera dei
Comuni, il governatore Mervyn King, i due vice governatori e altri
due membri del Monetary Policy Committee. Dei cinque componenti
del vertice della Bank of England presenti all’ incontro, tre
erano donne. Era la prima volta che ciò accadeva e il presidente
della Commissione, lo scozzese John Mc Fall, lo ha pubblicamente
apprezzato. Nel 2002 il governo ha promosso una legge per favorire
l’ immigrazione nel Regno Unito di persone particolarmente
qualificate e nel progetto di bilancio presentato dieci giorni fa
dal Cancelliere Gordon Brown ci sono misure per far sì che i
giovani che escono dalle cinquanta business school migliori del
mondo vengano a passare almeno un anno nel Regno Unito. In realtà
da fuori arrivano già in tanti e fanno anche soldi e carriera,
visto che almeno un terzo delle società del FT100 (l’ indice delle
blue chips della Borsa di Londra) ha come numero uno un non
britannico, ma evidentemente il governo Blair ritiene che attrarre
i migliori cervelli che ci sono in giro è fondamentale per la
prosperità futura della vecchia Inghilterra, che infatti forse
anche grazie a questo oggi non sembra vecchia affatto. Il
rapporto che c’ è fra le tre donne al vertice della Bank of
England, i provvedimenti presi o annunciati per attrarre dall’
estero persone qualificate e il fatto che un terzo delle società
del FT100 sono guidate da stranieri, è che sono tutti e tre
segnali del fatto che quella britannica è una società più aperta
che in passato e che c’ è una politica che persegue questa
apertura come uno dei suoi obiettivi.

Un altro degli obiettivi che il governo Blair si è dato è quello di migliorare sostanzialmente la qualità dell’ educazione, e
infatti il budget presentato da Brown prevede un aumento notevole
della spesa pubblica per la scuola di qui al 2008. Interessante
però è il piano che è stato elaborato e il modo con il quale è
stato presentato: «Di qui al 2008 l’ Inghilterra spenderà mille
sterline l’ anno in più per ciascun studente; di qui al 2015 tutte
le scuole secondarie del paese saranno state ristrutturate o
ricostruite con tecnologia ‘world class’ ; già dall’ anno
scolastico 20052006 ci sarà l’ attribuzione al direttore di ogni
scuola elementare di un fondo annuale di 55 mila sterline e al
preside di ogni scuole superiore di 180 mila sterline».
Naturalmente l’ efficacia di questi investimenti sarà verificata.
Come? Nello stesso modo con il quale sono stati misurati gli
effetti degli investimenti pubblici in educazione effettuati dal
1998 ad oggi: verificando il livello di apprendimento degli
studenti, che è l’ unico vero modo per valutare se un sistema
scolastico funziona. Secondo Blair quello che si è fatto fino ad
ora sta funzionando: «Il 75 per cento degli studenti delle scuole
elementari raggiunge oggi un buono standard in inglese, contro il
65 per cento del 1998, mentre in matematica lo standard è
raggiunto dal 73 per cento degli studenti contro il 58 per cento
di sei anni fa». E’ la via londinese al riformismo, in cui si
parla di cose concrete, di scuole, di soldi ai presidi, di
programmi, e poi si misurano i risultati ed eventualmente si
corregge il tiro. Sempre stando ai numeri sembra che funzioni.
Numeri semplici, di quelli che capiscono tutti: «Non dobbiamo mai
dimenticare che l’ obiettivo della politica economica è far sì che
la gente viva meglio ha detto Blair in un incontro alla Goldman
Sachs ed è una grande soddisfazione poter dire che da quando
siamo al governo lo standard di vita della famiglia media può
contare su 26 sterline la settimana in più».
Altri numeri semplici sono quelli che ha fornito Gordon Brown: «Oggi, ogni
giorno lavorativo ci sono 600 nuove attività che vengono avviate,
25 mila uomini e donne che trovano un lavoro e 10 mila offerte di
lavoro che vengono pubblicizzate». Il dato netto, dal 1998 ad
oggi, sono un milione e ottocentomila nuovi posti di lavoro e 100
mila nuove imprese. I dati macroeconomici confermano. La
disoccupazione è intorno al 3 per cento e la crescita del pil, che
dal 2000 ad oggi è stata superiore mediamente a sia a quella di
Eurolandia che a quella degli Stati Uniti, nel 2004 viaggia tra il
3 e il 3,5 per cento. Basta fare due passi per rendersi conto che
Londra è tornata vitale come nei suoi momenti migliori, ma anche
Leeds, Manchester, Edimburgo sono in piena rinascita. E se Gordon
Brown presentando il budget comincia una lunga campagna elettorale
dicendo che questo targato Labour è «il più lungo periodo di
crescita del Regno Unito negli ultimi 200 anni» e neanche i
conservatori trovano il modo di dimostrare che non è vero, quello
che è meno facile è capire di quali ingredienti sia fatta questa
ricetta.

I più sostengono che Blair ha raccolto i frutti del
lavoro fatto dalla Thatcher, e probabilmente questo neanche lui lo
nega. Quello che è certo è che non li ha dissipati e che vi ha
aggiunto anche qualcosa d’ altro. In effetti un problema
fondamentale, che richiedeva molto coraggio, era stato già
affrontato: l’ abbandono dei settori industriali nei quali l’
Inghilterra non era più competitiva. Quando è arrivato lui erano
stati chiusi, lasciati per sempre, quindi non sono state impiegate
risorse ed energie per tenerli in piedi. Oggi l’ Inghilterra
manifatturiera è più piccola (il settore copre meno del 20 per
cento del pil), ma è anche meno esposta, perché si è concentrata
in settori a più elevata tecnologia e valore aggiunto. Il
farmaceutico, la chimica, alcuni comparti della meccanica. Sembra
non pesare il fatto che le auto prodotte nel Regno siano di gruppi
esteri, anzi c’ è un rapporto di McKinsey, che è stato studiato
attentamente ai numeri 10 e 11 di Downing Street, residenze
rispettivamente del premier e del cancelliere dello scacchiere,
secondo il quale le fabbriche inglesi funzionano meglio quando
sono gestite da non inglesi. E sull’ altro piatto della bilancia
c’ è il fatto che gruppi inglesi controllano attività
manifatturiere in mezzo mondo, tanto che almeno metà del fatturato
delle società del FT100 è prodotto fuori dalla Gran Bretagna. L’
esportazione di produzioni verso altri paesi continua, il tessile
per esempio è passato negli ultimi cinque anni da 300 mila a 150
mila addetti, ma i 150 espulsi hanno trovato nuove occupazioni, le
aziende del settore hanno guadagnato in competitività e i
consumatori inglesi pagano meno per magliette e pantaloni. Lo
stesso fenomeno Cina ha un impatto positivo: «E’ vero ammette
Tony Blair la Cina compete con noi e ci porta via lavoro, ma dal
1996 le esportazioni verso la Cina sono triplicate creando posti
di lavoro qui». La chiave che fornisce Ben Broadbent, economista
della Goldman Sachs, è che sono migliorate le ragioni di scambio:
«Esportiamo cose che costano di più di quelle che importiamo».
Merci ad alto valore aggiunto e servizi.

Il vero boom in effetti è
nei servizi, alle imprese e alle persone, finanziari e non. Per la
finanza Londra è quello che è, e lo sappiamo, ma anche a Leeds i
servizi finanziari producono il 25 per cento del prodotto lordo
della città, e anche a Edimburgo la finanza conta non poco.
Complessivamente il settore finanziario dà lavoro a un milione di
persone e contribuisce per il 5,1 per cento del pil britannico,
però copre il 20 per cento sulle attività creditizie mondiali. Ma
la finanza non è tutto. I servizi stanno esplodendo. Ocado, una
società fondata nel 2000 da tre ex ‘traders’ e che si occupa di
consegna a domicilio di prodotti alimentari, realizza già un
fatturato di 88 milioni di sterline e ad oggi è stata valutata 312
milioni di sterline, quasi 500 milioni di euro. E’ una delle
tante, ma quello che c’ è dietro sono le competenze che hanno
consentito di metterla in piedi, che erano tutte disponibili sul
mercato, la facilità di creare un nuovo business che è uno dei
punti di forza del sistema inglese, il supporto del sistema
finanziario che offre la più ampia gamma di strumenti che ci sia
nel pianeta. In pochissime parole: flessibilità, del lavoro e
della finanza, e un ambiente fiscale e regolamentare il più
possibile favorevole alle imprese. Dall’ altra parte ci sono i
consumi. La gente spende, e investe, in case e in prodotti
finanziari. Si indebita anche, un po’ per consumare e soprattutto
per comprare case sempre più costose.

Se c’ è un problema per la sostenibilità della crescita dell’ economia inglese, questo è l’
indebitamento delle famiglie, per lo più in mutui a tasso
variabile, sensibilissimi al rialzo dei tassi. E’ la cosa che
preoccupa di più una parte della Banca d’ Inghilterra e una buona
parte degli osservatori: oggi il servizio del debito assorbe il 78
per cento del reddito delle famiglie, se i tassi saliranno il
servizio del debito assorbirà una quota maggiore dei redditi e ce
ne sarà meno per i consumi. E’ un problema, nessuno però ne fa un
dramma. L’ inflazione è inferiore al due per cento e i tassi, che
si danno comunque in salita, non dovrebbero andare oltre il 5 per
cento nei prossimi due anni.

La seconda incognita è la spesa
pubblica. Blair e Brown hanno rimesso a posto le casse dello stato
nei primi anni di governo portando i conti in surplus, poi, quando
è arrivata la crisi americana e l’ economia mondiale si è fermata,
hanno cominciato a spendere riportando i conti in deficit ma
riuscendo a mantenere stabile la crescita del paese anche nei
momenti difficili. Secondo le indicazioni del budget il deficit
continuerà a crescere lievemente fino al 2006 e le risorse per
investire in scuola e sanità saranno recuperate riducendo di 40
mila unità le burocrrazie dei ministeri e con recuperi di
efficienza. I conservatori non ci credono e sostengono che dopo le
elezioni del 2006 si dovranno aumentare le tasse. Ma anche il
problema del disavanzo non fa tremare nessuno: il debito pubblico
inglese è pari al 35 per cento del pil.

Fonte: La Repubblica - Affari & Finanza del 5 aprile 2004

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