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Il ministro di Bush: il welfare? Per noi il lavoro conta più della protezione

Non è vero che il lavoratore americano è privo di garanzie. Offriamo un’ assistenza generosa e compassionevole a chi rimane senza lavoro: fino a due anni di sostegno economico, aggiornamento professionale, l’ aiuto a cercare un nuovo posto. Diamo anche l’ assistenza gratuita ai figli minori e, se il lavoratore aveva un’ assicurazione sanitaria, paghiamo fino al 65 per cento del premio nel periodo di disoccupazione. Se, poi, la persona ha più di 50 anni e il nuovo lavoro offre una retribuzione inferiore rispetto al precedente, la metà della differenza gliela versiamo noi». Elaine Chao, una donna di 51 anni di origine cinese, è uno dei pochissimi ministri confermati da Bush anche per il suo secondo mandato alla Casa Bianca. Il Segretario al Lavoro è un prodotto tipico della cultura dominante tra i repubblicani: un passato di banchiere e di manager nei trasporti alternato con esperienze nell’ Amministrazione, la Chao ha uno stretto legame con la Heritage Foundation, il «think tank» divenuto, insieme all’ American Enterprise Institute, la «fabbrica» dell’ ideologia dei conservatori. A Davos la Chao incontra imprenditori, spiega agli europei il funzionamento del mercato del lavoro americano, risponde volentieri alle domande. E ne fa qualcuna anche lei: «Ma questo forte attaccamento dell’ Europa a modelli di “welfare state” è un dato recente, del Dopoguerra, oppure ha una storia più antica?» Il racconto delle radici piantate da Bismarck nell’ Ottocento la interessa per un po’ , poi torna al suo pragmatismo: «Non voglio dare giudizi sulle cause della bassa crescita economica dell’ Europa. Posso solo spiegare la nostra esperienza che si basa sulla scelta di mettere al centro la cultura del lavoro anziché quella della protezione. La rete di sicurezza c’ è – ogni anno spendo 60 miliardi di dollari per i sostegni ai disoccupati, su un bilancio complessivo del mio ministero di 72 miliardi -, ma non è quello il punto centrale. Il motore del sistema è la capacità di creare un clima orientato alla crescita: meno tasse, abolizione di vincoli e norme punitive, massima mobilità del lavoro». L’ America effettivamente cresce molto più rapidamente dell’ Europa, ma l’ occupazione, in netta ripresa negli ultimi mesi, è stata per Bush un cruccio durante il suo primo mandato. La Chao preferisce concentrarsi sui dati più recenti: «Dall’ agosto del 2003 a oggi il sistema ha creato 2,6 milioni di nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è al 5,4%. Poco, rispetto all’ Europa. Ma soprattutto dovete considerare che, su 9 milioni di disoccupati complessivi, 5 milioni sono frizionali: gente che sta transitando da un lavoro all’ altro. L’ anno scorso 50 milioni di americani hanno lasciato – volontariamente o non volontariamente – il loro lavoro e altrettanti ne hanno trovato uno nuovo. La disoccupazione di lungo termine in Italia è il 58% del totale, in Germania il 50, in Giappone il 34, da noi solo l’ 11,8%». Un sistema sicuramente più efficiente, anche se la nuova occupazione nei servizi spesso offre retribuzioni inferiori, erodendo il potere d’ acquisto dei ceti medi. La Chao mette da parte le tabelle e sfodera l’ ideologia: «Ogni sistema deve conciliare esigenze diverse. Io credo che il nostro garantisca l’ equilibrio migliore tra flessibilità e garanzie. E credo che il basso tasso di sindacalizzazione sia un fattore positivo: gli iscritti alle “unions” sono ormai scesi sotto il 12,2% della forza-lavoro totale, l’ 8% nel settore privato». L’ economia cresce più rapidamente, è vero, ma l’ America continua a consumare più di quello che produce. Il ministro del Lavoro Usa spara un’ altra raffica di numeri: il 62% degli americani in età di lavoro ha un impiego mentre «in Europa siete molto più indietro. Nel G7 soltanto il Canada fa meglio di noi. Nel periodo 1990-2003 gli impieghi a tempo pieno negli Stati Uniti sono cresciuti a una velocità doppia rispetto alla Francia, mentre Italia, Germania e Giappone hanno registrato una crescita zero o una diminuzione». Tra Europa e Usa c’ è però una differenza importante che spiega in parte questo gap: le donne che lavorano in America sono molto più numerose. «Vero – risponde Elaine Chao – ma non pensate che sia facile ottenere risultati in questo campo. La rivoluzione del lavoro femminile in America è stato un prodotto degli Anni ‘ 70. Un giusto investimento sul futuro, ma all’ inizio si devono scontare risultati economici negativi: da noi la produttività calò per dieci anni perché la maggior parte delle donne che si affacciavano sul mercato non aveva alcuna formazione professionale. Poi il gap è stato colmato. E comunque il problema in Europa non è soltanto di persone impiegate ma anche di ore lavorate: 30 in media in una settimana per un olandese, 34 per un francese, 38 per un americano». Saluto il ministro con una promessa che la incuriosisce: «Le mando uno studio di due economisti italiani che si sono formati negli Usa, Tito Boeri e Guido Tabellini. Mostra una realtà diversa: al netto delle diverse leggi che regolano lavoro e pensionamento non ci sono differenze sensibili nelle ore effettivamente lavorate». Massimo Gaggi

Fonte: Il Corriere della Sera del 1 febbraio 2005

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