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Istat e occupazione, e le regazze restano a casa

I dati sulle forze di lavoro diffusi dall’Istat martedì 21 non sono riusciti a dissipare gli equivoci. Nel clima avvelenato della campagna elettorale c’è chi si ostina a vedere il bicchiere mezzo pieno e chi mezzo vuoto. E le cifre sono contraddittorie, non è colpa degli statistici, ma della complessità della realtà italiana.. Ecco qualche esempio:

    Buona notizia: gli occupati sono ulteriormente aumentati, di 158mila unità nella media 2005. Cattiva notizia: la dinamica è in fase di rallentamento: nel quarto trimestre 2005 il miglioramento rispetto al periodo corrispondente del 2004 è stato solo di 55mila unità, a fronte delle 168mila del corrispondente periodo 2004 sul 2003.
    Buona: il tasso di disoccupazione è rimasto al minimo storico, con un netto miglioramento nel Mezzogiorno. Cattiva: nel Sud non si sono creati nuovi posti di lavoro. Questo significa che la diminuzione dei disoccupati si deve a un effetto di scoraggiamento: è inutile darsi da fare (ed essere registrati come persone in cerca) se il lavoro non si trova.
    Buona: l’analisi dei dati dell’ultimo decennio, come ho esposto più analiticamente nel mio blog, ci dice che l’occupazione è stata in continua crescita: quasi 1,3 milioni dal 1996 al 2001, durante il governo di centrosinistra, quasi un milione dal 2001 al 2006, durante il centrodestra. Cattiva: i dati sulle unità di lavoro a tempo pieno (Ula), che calcolano la quantità di lavoro domandato dal sistema, indicano un aumento corrispondente alla crescita dell’occupazione (più 1,2 milioni) nel periodo 1996 – 2001, ma solo 364mila Ula in più nel periodo del centrodestra, tra l’altro tutte create nel 2002/2003, essendo le Ula rimaste stazionarie nel 2004 e scese di 101mila unità nel 2005. La quantità di lavoro insomma non aumenta, ma si ripartisce tra più persone.

Sarebbe malaccorto fare un parallelo meccanico tra i dati sull’occupazione e la performance dei diversi governi. Però è corretto dire che mentre i provvedimenti di flessibilizzazione del mercato del lavoro (Pacchetto Treu dal 1997, legge Biagi dal 2003) hanno avuto successo nell’aumentare i posti di lavoro, la crisi generale di competitività riduce la capacità del sistema Italia di aumentare la domanda di forza lavoro. E’ giusto discutere di flessibilità, di limitazione della precarizzazione, di rete di garanzia attraverso forme di protezione dei disoccupati, a fronte di una maggior libertà delle imprese nell’uso del fattore lavoro. Ma non dimentichiamo che, se il sistema non è in grado di creare domanda aggiuntiva di lavoro, le politiche saranno fatte per spartirsi meglio una torta che si restringe: una lotta tra poveri.

L’altro aspetto che il prossimo governo, qualsiasi governo, deve affrontare con il massimo impegno è quello dei gravissimi squilibri di genere e di territorio nell’impiego della manodopera. Gli statistici sanno bene che il vero problema dell’Italia non è il tasso di disoccupazione, un indicatore perturbato la cui importanza è stata sopravvalutata, ma il tasso di occupazione, che ci dice quante persone lavorano su cento in una determinata fascia di età e territorio.
Qui si registra il ritardo storico dell’Italia rispetto all’Europa, soprattutto per quanto riguarda le donne. La situazione non sta migliorando: nel corso del 2005, il tasso di occupazione nella fascia 15 – 64 anni è rimasto fermo al 57,5%, senza variazioni né per gli uomini (69,7%) né per le donne ( 45,3%) ma con un netto peggioramento per le donne del Sud (-0,6%). Sempre più lontano, insomma, dagli obiettivi di Lisbona che vorrebbero anche le donne occupate almeno al 60%.

L’emarginazione dal lavoro colpisce in particolare le donne giovani del Mezzogiorno. L’Istat ha diffuso da poco il volume on line contenente le medie provinciali 2004, che confermano l’allarmante situazione. Se guardiamo alla fascia di età tra i 25 e i 34 anni, quella in cui anche chi ha studiato si affaccia al mercato del lavoro, constatiamo che in Lombardia lavora il 75,6 per cento delle giovani, mentre in Sicilia è occupato solo il 32%.

Al convegno della Rosa nel Pugno in ricordo di Marco Biagi, giovedì 16, l’economista bocconiano Francesco Giavazzi ha posto l’accento sulla formidabile risorsa che è per l’Italia la disponibilità di giovani preparati, citando come esempio due laureate di Caltanissetta, ben formate dalle scuole locali, che hanno lavorato con lui e hanno dimostrato un grande potenziale di crescita, anche a livello internazionale. Verrebbe da dire: peccato che a Caltanissetta lavori solo una giovane donna su cinque (22,6%, la percentuale più bassa d’Italia). Se ne lavorassero quattro su cinque come a Lodi o a Varese, l’Italia avrebbe certamente una marcia in più.

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