• sabato , 23 Novembre 2024

Se Rifondazione Comunista tifa Draghi qualcosa non è chiaro

La sollecitazione del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ad aumentare gli stipendi degli italiani, perchè sono del 30-40 % più bassi che in Francia Germania e Gran Bretagna è stata accolta come era facile prevedere da un’ovazione corale e bipartisan. E come poteva accadere il contrario? Chi mai oserebbe dire che gli stipendi vanno ridotti?
Il fatto è che dev’essere sfuggito qualcosa se il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano si è improvvisamente scoperto un “Draghi Boys” come molti politici della sinistra e sindacalisti: o pochi hanno letto integralmente il discorso del Governatore o chi lo ha fatto davvero ha preferito commentare solo ciò che dà popolarità, la richiesta di aumento dei salari, ignorando la condizione che Draghi ha posto perché ciò avvenga, cioè che prima aumenti la produttività del lavoro.
Sicchè , con il millantato e supposto avallo della Banca d’Italia, massimo custode dell’ortodossia e del rigore finanziario, il rischio è ora che si accenda nel Paese un clima da pre autunno caldo, per niente coerente con le condizioni dell’economia del paese.
Ma cosa ha detto dunque, e davvero, Mario Draghi?
1) Che gli stipendi in Italia sono del 30 40% più bassi che in Francia,Germania e Gran Bretagna, in termini di potere d’acquisto costante;
2) Che con stipendi bassi si spende meno ed anche i consumi restano bassi;
3) Che se si vuol far crescere l’economia occorre far crescere i consumi e dunque gli stipendi;
4) ma, infine, che per aumentare gli stipendi, “la produttività è la variabile chiave”.

Il Governatore ha naturalmente articolato la sua analisi citando come causa dello scarso dinamismo dell’economia e della società anche l’incertezza determinata dalla precarietà del lavoro, dal futuro previdenziale continuamente riformato e controriformato; il ritardo con cui i giovani si emancipano dalle famiglie rinunciando a crearsene una; il conseguente ulteriore impoverimento dei consumi che ciò comporta . Ma al fondo della sua analisi c’è che l’economia non crescere perchè è bassa la produttività, ovvero perché nello stesso spazio di un’ora di lavoro, l’operaio italiano produce meno di quello tedesco, prodotti di minor qualità.
E’ vero, ma francamente non vediamo nulla di nuovo in questa affermazioni, né alcuna ” rivoluzione culturale” nell’averlo segnalato, come invece estaticamente commenta il quotidiano della Confindustria. Affermazioni di questo tipo la Banca d’Italia le articola da almeno otto anni in più occasioni pubbliche. E’ arcinoto che la produttività , calcolata come valore aggiunto per unità standard di lavoro è passata da un aumento dell’1,8% negli ani 80, all’1,4% negli anni novanta ed ora sia calata dello 0,3% laddove i tre paesi dove si guadagna di più l’hanno invece accresciuta. E’ arcinoto anche che l’aumento dell’occupazione avvenuta negli ultimi sei anni ha interessato lavori di più basso livello tecnologico e dunque ha contribuito a ridurre ulteriormente la produttività del Paese. Infine è noto anche che le imprese italiane hanno colto in grave ritardo l’occasione delle nuove tecnologie dell’informazione e di internet come strumento per riorganizzare il modo di produrre e che da qui è nato il declino che ha impedito di produrre ed esportare di più, e di aumentare gli stipendi ai lavoratori.
La Banca d’Italia individuava già 8 anni fa che per essere competitivi occorreva “correlare costo del lavoro e produttività ( Antonio Fazio, Commissione Tesoro della Camera, febbraio 1999); quattro anni fa che “pochi italiani lavorano e quelli che lo fanno lavorano poco, come dimostrato dal calo delle ore lavorate nel biennio 2002-2003, da 1676 a 1656 ( Pierluigi Ciocca, Società degli economisti- ottobre 2003); tre anni fa, che occorreva uno Statuto del Lavoro diretto ad impedire la precarietà; addirittura sette anni fa che con la maggiore produttività e con la variazione dei compensi e dei costi, i lavoratori potrebbero partecipare alle vicende dell’impresa fino a poterne diventare compartecipi anche nella proprietà. ( Antonio Fazio, Unione industriali di Torino- luglio 2000).
Ed allora perché tanto stupore? Perché se aver detto queste cose negli anni ed aver raccolto adesione e plauso non ha condotto a nulla di concreto, occorre farsi furbi e dire, non che bisogna lavorare di più, bensì che bisogna guadagnare di più nella speranza che, preso dal verso giusto, il dibattito sulla produttività possa davvero portare a qualcosa di concreto. Questo ha fatto Draghi anche se ora si prospettano due rischi: il primo è che appena le sue parole saranno state lette integralmente e soprattutto capite tornerà nella sua solitudine; il secondo, ben più grave, che le sue affermazioni vengano strumentalizzate e si faccia strada nel Paese l’idea che se l’industria non è in grado di autoriformare le propria organizzazione per rendere possibile la maggiore produttività, l’unico modo per costringerla sia una spallata dal lato dei salari. Un nuovo autunno caldo porterebbe inflazione, la peggior tassa che i lavoratori possano subire.

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