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Le deroghe? Non sono nate ieri

Si è concluso il negoziato tra Federmeccanica e le controparti di categoria appartenenti alle confederazioni firmatarie dell’accordo quadro del 22 gennaio 2009.
La posta in gioco ha riguardato una migliore definizione delle cosiddette “clausole di deroga” allo scopo di sollecitare una maggiore adeguatezza della contrattazione collettiva alle esigenze produttive del settore dell’auto.
La scelta di agire sulle “clausole di deroga”(come concordato tra Emma Marcegaglia e Sergio Marchionne) ha consentito, per ora, di salvare capra e cavoli: raccogliere la sfida della Fiat senza fuoriuscire dal contesto negoziale vigente e senza mettere in discussione l’unitarietà del contratto nazionale di categoria.
Naturalmente l’ambito di applicazione delle “clausole di deroga” (presenti in sistemi di relazioni industriali di altri paesi, operative da ben due turni contrattuali nella chimica e raccomandate, nel 1997, dalla Commissione presieduta da Gino Giugni) è destinato ad allargarsi ad altri istituti, all’orario di lavoro, in particolare, in aggiunta alla possibilità – come è consentito dall’accordo quadro – di governare situazioni di crisi o di promuovere incrementi dell’occupazione in determinate realtà aziendali e territoriali, in via sperimentale e provvisoria.
L’operazione è destinata a suscitare le solite polemiche sulla demolizione del contratto nazionale, come se, in un paese che ha il discutibile vanto di ben 400 contratti di categoria, fosse particolarmente lesivo dei diritti dei lavoratori assumere degli strumenti negoziali più attenti alle condizioni e alle prospettive del settore auto e garantiti da uno specifico accordo sindacale.
Peraltro, nella storia delle relazioni industriali – se ne è parlato in occasione del Convegno di Genova – il livello settoriale ha occupato un posto d’onore. La riscossa operaia degli anni 60, iniziò, nei primi anni del decennio, con le lotte e gli accordi dei siderurgici e soprattutto degli elettromeccanici.
Tanto che la rottura del principio dell’esclusività del contratto nazionale e l’apertura a esperienze di contrattazione articolata camminavano su due gambe: il settore e l’azienda.
Così, il celebre Protocollo Intersind-Asap che, nel 1962, aprì la strada, a partire proprio dai metalmeccanici, al modello contrattuale in pratica tuttora vigente, faceva riferimento alla «possibilità di una maggiore articolazione della contrattazione collettiva per settori o a livello aziendale che attui concretamente i principi affermati ai livelli superiori oltre a consentire una migliore aderenza delle norme contrattuali alle particolari esigenze settoriali e aziendali».

Nelle due stagioni contrattuali successive, il negoziato a livello settoriale si svolse, come previsto, contestualmente ai rinnovi dei contratti nazionali, con una precisa indicazione delle materie riservate ai sei settori riconosciuti: orario di lavoro; classificazione del personale; minimi retributivi; indennità per lavori disagiati. Fu poi la spinta egualitaria dell’autunno caldo ad abolire quasi tutte le specificità dei differenti comparti.
Oggi non è il caso di ritornare indietro di cinquant’anni e a settori largamente modificati. È necessario uno sforzo di fantasia per introdurre nell’articolazione contrattuale altri contesti, non solo aziendali o territoriali, ma “verticali”; in grado, cioè, di adeguare meglio la contrattazione alle trasformazioni nelle reti e nelle filiere.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 1 ottobre 2010

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