Libero dalle mediazioni che l’ impegno politico diretto comporta, Romano Prodi sta attraversando una stagione in cui il coraggio della verità e le doti di analisi si coniugano con una esposizione del pensiero di straordinaria chiarezza. Esemplare, ad esempio, un recente editoriale sul Messaggero, dove denuncia l’ incapacità dei riformisti nell’ affrontare con terapie convincenti la crisi dell’ economia di mercato e li accusa di proporre «liste di riforme poco credibili, scritte col bilancino, con l’ occhio più attento agli “opinion polls” che alla capacità di risolvere i problemi, più dedicata a non scontentare che non a cambiare la società… perché questo implica da un lato la rinuncia ad un impossibile e antistorico radicalismo e, dall’ altro, esige la ripresa di un vigoroso riformismo… che deve tener conto della globalizzazione, del fatto che l’ Italia compete non solo con la Cina o la Germania, ma anche con la Turchia, la Serbia, la Polonia e gli Stati Uniti». In un altro articolo (31 dic.) Prodi torna sulla globalizzazione e su alcuni dati che forse neppure percepiamo. Così ci siamo accorti che su scala mondiale nell’ anno appena terminato «il tasso di crescita globale ha quasi raggiunto il cinque per cento, uno dei livelli più alti della storia economica»? Un tasso, peraltro del tutto discordante al suo interno, poiché «le economie emergenti sono cresciute alla fantastica velocità del 7,4%, mentre le economie dei paesi sviluppati hanno progredito del 2,6%. Così se l’ economia europea rimarrà nel prossimo anno ad un tasso medio di crescita del 2% la Germania continuerà a marciare al ritmo del 3%, mentre l’ Italia, mantenendosi intorno all’ 1%, rimarrà nello scalino più basso». Questi ed altri inoppugnabili dati dovrebbero suggerire anche al più estremista fra i contestatori che non vi è futuro per il nostro paese senza una ripresa d’ investimenti, soggetti, peraltro, alle condizioni dell’ economia globalizzata. Scalfari nel suo articolo di ieri ne ha tracciato un profilo inoppugnabile. Sulla vicenda Fiat basta, infatti, aver presente quel profilo per cogliere l’ assurdità delle accuse secondo cui le deroghe dal contratto nazionale (mai firmato peraltro dalla Fiom) costituirebbero una lesione di un diritto indisponibile per i metalmeccanici, mentre già sono state contrattate e accettate anche dalla Cgil per una serie di altre categorie, dagli alimentaristi ai chimici. Così anche appare insensato bollare d’ incostituzionalità la premessa secondo cui la rappresentanza in fabbrica spetta solo ai sindacati che firmano gli accordi, quando questo principio è sostenuto esplicitamente dall’ art.19 dello Statuto dei lavoratori, proprio per evitare che formazioni anomale o improvvisate interferiscano nella conduzione e gestione delle vertenze. Se, quindi, per avventura i lavoratori italiani si mostrassero sensibili agli appelli di un sindacalismo veterogruppettaro (che della vecchia Fiom ha solo la sigla), ebbene Landini e Cremaschi potrebbero scriversi da soli un contratto di loro gradimento, destinato però a fabbriche deserte. Basta, di contro, guardare al di là delle Alpi per accorgersi come i sindacati tedeschi abbiano affrontato la crisi, scambiando dapprima una flessibilità da noi impensabile (persino con spostamenti temporanei da un centro industriale ad un altro), diminuzioni salariali ed altri sacrifici in cambio del mantenimento del posto di lavoro; e fruendo, a crisi superata, di salari fra i più alti d’ Europa, aumento dell’ occupazione, salvaguardia dell’ essenza del Welfare. Una filosofia fatta propria anche dalla Merkel che ha imposto al suo partito la Carta di Berlino (una Bad Godesberg della Cdu) che dichiara «la solidarietà sociale un valore costitutivo della Repubblica federale». Dietro le cifre della ripresa tedesca vi è, insomma, una rivoluzione culturale che ha investito i due partiti fondamentali della Germania in una dialettica dei rapporti di classe di compartecipazione e non di contrapposizione.
Fonte: Repubblica del 3 gennaio 2011Fiat, la Germania è poi così lontana da Torino?
L'autore: Mario Pirani - Socio alla memoria
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