• sabato , 23 Novembre 2024

Chi apprezza il modello tedesco sa che è molto simile a quello di Marchionne?

Lo stabilimento di Mirafiori ha votato: i sì hanno vinto con il 54% dei suffragi, dopo settimane di dura polemica. Determinante è stato il voto degli impiegati. Questa circostanza ha suscitato qualche commento velenoso, come se i camici bianchi non fossero lavoratori con diritti pari a quelli degli operai. Vedremo nei prossimi giorni se il gruppo dirigente della Cgil sarà in grado di fare i conti con quella setta di visionari che si è impossessata della Fiom. Sarebbe questo il solo modo – ed anche il più semplice e diretto – per risolvere un problema che sta avvelenando le relazioni industriali.
Il risultato del voto è sicuramente importante. Ma il caso Mirafiori lascia anche tanta amarezza. Ancora una volta si dovuto constatare che l’Italia è un Paese malato di retorica. Che una normale vertenza sindacale – su temi che sono al centro del confronto tra imprenditori e sindacati in tutto il mondo civile e sviluppato e che anche da noi vengono affrontati senza drammi in altre situazioni magari dai medesimi protagonisti sindacali del caso Mirafiori – si sia trasformata in una sorta di “giudizio di Dio”, di scontro definitivo tra il “bene” e il “male”, tra i “puri” e i “venduti” e che a determinare tale rappresentazione deformata e patetica della realtà abbiano concorso tanti “pifferai della rivoluzione” che una fabbrica l’hanno vista solo in cartolina, è il vero insulto alla dignità (quanto si è abusato di questa parola !) di quei lavoratori che, votando in piena libertà a favore dell’accordo, hanno assicurato un futuro anche dei colleghi caduti nella trappola della retorica e della ideologia.
Negli ultimi giorni abbiamo scoperto che accordi simili a quelli proposti dal perfido Marchionne sono abbastanza diffusi nell’industria senza che la Fiom disdegni di negoziarli e sottoscriverli, persino in perfetta solitudine laddove è forza egemone. Del resto, anche in altri Paesi europei sono operanti meccanismi di deroga simili a quelli che la Fiat ha rivendicato per sé. Sono persino previste procedure che consentono l’opting out delle singole aziende rispetto alla contrattazione nazionale o regionale. Prendiamo il caso della Germania, un Paese che sembra aver superato brillantemente la crisi, grazie anche alle innovazioni introdotte nel sistema di relazioni industriali.
Come scrive Alberto Pizzoferrato, ci sono due tipi di rapporti tra contratti collettivi di diverso livello che possono configurarsi in Germania.
1) Il primo tipo di relazione è quella che può intercorrere tra il contratto collettivo regionale (Land) o di distretto (parte di Land) o di settore [che è concluso tra sindacato dei lavoratori e associazione dei datori di lavoro ed è denominato area collective agreement o Flachentarifvertrag ] e il contratto collettivo che si può chiamare “monodatoriale” perchè concluso tra sindacato ed un unico datore di lavoro [company agreement o Firmentarifvertrag] . Questo ultimo tipo di contratto rappresenta oggi una eccezione nel sistema di relazioni industriali tedesco (si ricordano quelli delle imprese statali privatizzate come Deutsche Post e Deutsche Telekom e sono più frequenti nei settori delle comunicazioni e del traffico aereo). Questo tipo di relazione è regolata da una disposizione contenuta nel Tarifvertragsgesetz (TVG del 1969 o Legge sui contratti collettivi che regola i profili riguardanti la legittimazione dei soggetti negoziali, l’efficacia ed il contenuto del contratto collettivo). In particolare l’art. 4, c. 3 TVG stabilisce che «accordi in deroga al contratto collettivo sono ammissibili soltanto nel caso in cui sia il contratto collettivo stesso a prevederli, ovvero laddove contemplino una regolamentazione più favorevole per il lavoratore».
Esempio di questa prima ipotesi è il contratto dei metalmeccanici (nella Germania orientale) che nel 1993 ha introdotto una clausola di emergenza, attraverso la quale veniva consentito alle imprese in crisi di concordare con le organizzazioni sindacali dei lavoratori specifiche deroghe ai minimi salariali previsti nel contratto collettivo di categoria, per un periodo circoscritto e a condizione che venisse presentato un idoneo piano per la ripresa aziendale.
2) Il secondo “tipo” di relazione (molto più frequente) è quella che si instaura tra il contratto collettivo regionale (o di distretto o di categoria) e l’accordo aziendale che viene sottoscritto dal datore di lavoro e dal “consiglio di azienda”; quest’ultimo è un organismo unitario eletto all’interno dell’azienda stessa e formalmente distinto dalle organizzazioni sindacali. Questo forma di accordo a livello aziendale, che è chiamato works agreements o Betriebsvereinbarungen , rinviene la sua base giuridica nel Betriebsverfassungsgesetz (BetrVG o legge sull’ordinamento aziendale). Come un contratto collettivo, l’accordo aziendale può stabilire diritti e doveri tra le parti e può contenere clausole normative individuali e collettive.
Per quanto attiene al rapporto tra contratto collettivo e accordo aziendale, il primo riveste una posizione privilegiata sul secondo, come si desume dall’art. 77, c. 3 del BetrVG (legge sull’ordinamento aziendale). La disposizione precisa infatti, che non tutte le materie possono essere trattate in un accordo aziendale. In particolare la retribuzione o altre condizioni di lavoro disciplinate in un contratto collettivo o che, generalmente, sono previste in un contratto valido per il settore o regione in questione, non possono costituire materia di un accordo aziendale. Tale rigida regola subisce però, una deroga. Ai sensi dell’art. 77, c. 3 2° capoverso è previsto, infatti, che un contratto collettivo possa autorizzare espressamente datore di lavoro e consiglio aziendale a regolare, attraverso un accordo aziendale integrativo, un elemento specifico a loro discrezione. Ciò può essere realizzato inserendo nel contratto collettivo una c.d. clausola di apertura o di uscita.
E’ ovvio che in questo caso la delega a regolamentare materie previste dal contratto collettivo è indirizzata ai soggetti abilitati a stipulare l’accordo aziendale, ossia il datore di lavoro e il Consiglio aziendale.
Questa tecnica è divenuta un dato costante nella prassi aziendale. In particolare nel corso degli anni 90 si registrano accordi aziendali che hanno introdotto misure di flessibilizzazione della retribuzione incentrate sulla rimodulazione dell’orario di lavoro. Non è infrequente, poi, che le parti del contratto collettivo si riservino un controllo di merito sull’accordo aziendale eventualmente stipulato (si parla qui di clausola di apertura con diritto di veto). È questo il caso del contratto collettivo concluso nel ’97 nel settore chimico: tale contratto, allo scopo di salvaguardare i livelli occupazionali ed incrementare la competitività, aveva autorizzato gli accordi aziendali a modificare temporaneamente al ribasso il salario concordato collettivamente, prevedendo un limite massimo del 10%.
Come possiamo osservare il tanto decantato modello tedesco è più simile a quello proposto da Sergio Marchionne che a quello difeso dai suoi irriducibili avversari.

Fonte: Occidentale del 16 gennaio 2011

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