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Se allo statistico serve il batiscafo

Sull’economia sommersa circolano le stime più varie. C’è persino chi sostiene che in Italia valga un terzo dell’economia, ma è una tesi che fa a pugni con la realtà: per convincersene basterebbe dare un’occhiata alla composizione del Pil.
Sedici, 17, 20, 22, 27. Non è una cinquina per il Superenalotto, sono le varie stime su quanto varrebbe il sommerso in Italia in percentuale del Pil. La prima e la seconda cifra rappresentano la “forchetta” della stima Istat (l’ultima disponibile è riferita al 2008), la terza è apparsa in uno studio della Commissione europea, le ultime due derivano da una ricerca di Friedrich Schneider dell’università di Linz (con Dominik Enste), che l’ha pubblicata in un paper del Fondo monetario internazionale (http://www.imf.org/external/pubs/ft/issues/issues30/index.htm ) diffuso nel 2000 (e poi l’ha periodicamente aggiornata) che ha fatto molto rumore e provocato molte polemiche tra gli economisti. Una valutazione corretta del sommerso è importante, perché può far variari di non poco la misura del Pil, che è il parametro più usato non solo come base di valutazione per una serie di confronti tra economie, ma anche a fini pratici. Per esempio per i famosi parametri di Maastricht, al rispetto dei quali devono poi essere orientate le politiche economiche. Inoltre sapere quanto vale questa parte di economia nascosta ci aiuta a capire le dimensioni dell’evasione fiscale e ci serve per sapere quanto sia la pressione fiscale reale, cioè su quelli che le tasse le pagano.
Com’è possibile che le stime siano così diverse? Beh, la materia non è certo di quelle che si prestino a una misurazione precisa. Il “sommerso” è, appunto, nascosto e dunque i metodi per misurarlo sono tutti indiretti. E’ formato essenzialmente da due aree: quella dell’economia legale che però vuole evadere le tasse e i contributi e quella dovuta ad errori statistici. L’economia illegale, come la prostituzione e il traffico di droga, non viene invece considerata negli attuali sistemi di contabilità nazionale, ma – rileva l’Ocse – nei pochi paesi che invece la misurano (tra cui quelli baltici e il Regno Unito) risulta al massimo all’1% scarso del Pil. Non dipende perciò da questo la divergenza tra le percentuali ricordate più sopra, che anzi è in realtà ancora più elevata perché il 27% del professor Schneider si dovrebbe addirittura aggiungere al Pil stimato dall’Istat che contiene già quella quota di sommerso compresa nella forchetta 16,3-17,5%. Un balzo che, come osservava l’ex presidente dell’Istat Alberto Zuliani, ci farebbe superare in reddito pro capite molti altri paesi avanzati, tra cui Svezia, Germania, Olanda.
Schneider utilizza due metodi (che a volte danno risultati anche piuttosto diversi per lo stesso paese). Uno è basato sui consumi di energia, l’altro sulla quantità di moneta in circolazione, nel presupposto che tutte le transazioni che si vogliono schermare rispetto alle leggi vigenti avvengano usando denaro contante e fuori dal circuito bancario. Ad entrambi questi metodi sono state mosse obiezioni tecniche specifiche, ma quella che appare decisiva si può trovare in un documento Ocse (Measuring the non-observed economy,http://www.oecd.org/dataoecd/16/16/2389461.pdf ) che risale addirittura al novembre 2002.
Ci sono interi settori dell’economia, osservano gli autori Derek Blades e David Roberts, dove il sommerso non esiste. Il settore pubblico, quello del credito e assicurazioni, quelli delle grandi imprese (che siano manifatturiere o di servizi), la massima parte di quello dei trasporti. Ci possono essere elusione o anche evasione fiscale, ma questo è un altro discorso che non riguarda il sommerso.
Facciamo dunque un po’ di conti sull’Italia, aiutandoci con uno studio di Sandra Maresca dell’Istat (http://www.istat.it/strumenti/metodi/contabilita/articoli/misuradelpil.pdf ). Da noi la pubblica amministrazione vale circa il 5% del Pil, credito e assicurazioni intorno al 20%. Le attività manifatturiere circa il 23 e il commercio 13: fa un altro 36%, oltre la metà del quale è attribuibile a grandi imprese (diciamo un 20?). Poi c’è un 3% di energia e un 6,5 di trasporti, poco più del 4 per l’istruzione (quasi tutta pubblica), un altro 4 per sanità e servizi sociali (idem). Insomma, siamo già a più del 60% del Pil dove il sommerso di sicuro non c’è. I settori “a rischio” sono invece agricoltura (poco più del 2,5%), costruzioni (meno del 5), altri servizi sociali e personali e servizi domestici (4,5), alberghi e ristoranti (3,5). Il più grosso dei capitoli a rischio è quello del servizi alle imprese, più del 18%, ma anche qui vale che nei servizi alle grandi imprese (certamente più della metà) il sommerso non c’è.
In conclusione, non più del 25% del Pil è “a rischio”. Ma per generare un risultato del 27% rispetto al totale questo 25% dovrebbe essere sommerso tutto, il che è palesemente assurdo. La stima del professor Schneider, dunque, almeno per quanto riguarda l’Italia è clamorosamente sbagliata ed assai più realistica appare quella dell’Istat. Del resto l’Eurostat, quando ha dovuto scegliere una metodologia per misurare il sommerso, ha adottato proprio quella italiana.
Come mai allora i dati del professore di Linz continuano a circolare e continuano ad esserci economisti anche di valore che li utilizzano nei loro ragionamenti? La risposta è probabilmente che in alcuni casi si preferisce credere ai dati che risultano più funzionali alle proprie tesi. E se la realtà non corrisponde, peggio per lei.

Fonte: Affari e Finanza del 3 maggio 2011

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