Nell’articolo di martedì “Nei numeri dell’Istat sul rischio di povertà in Italia c’è qualche dettaglio degno del diavolo”, Roberto Volpi commenta con competenza alcuni aspetti dei dati contenuti nel Rapporto dell’Istat. In particolare, Volpi sottolinea, come d’altronde fatto a pagina 22 della Sintesi del Rapporto (http://www.istat.it/dati/catalogo/20110523 00/sintesi_2011.pdf ), che la situazione è molto variegata e che il dato che tanto ha colpito alcuni commentatori non si riferisce alle persone in stato di povertà (circa il 13 per cento della popolazione), ma a quelle “a rischio di povertà o esclusione” (circa il 25 per cento). E’ chiaro che la differenza tra i due concetti è abissale. Peraltro, il primo è quello abitualmente pubblicato dall’Istat, seguendo standard definiti in sede europea, il secondo (che include, oltre alle persone a rischio di povertà, anche quelle gravemente deprivate e quelle appartenenti a famiglie a molto bassa intensità lavorativa) è stato scelto dai governi dei 27 paesi dell’Unione europea nell’ambito della strategia Europa 2020. Se, dunque, Volpi chiede a me se io mi fido ciecamente di tale indicatore, la mia risposta è che se l’Europa lo ha scelto è dovere dell’Istat calcolarlo nel modo più preciso possibile. Ma proprio perché fare di tutta un’erba un fascio non è necessariamente corretto, nella già richiamata Sintesi si analizza il livello e l’andamento di ciascuna componente, segnalando, ad esempio, con riferimento all’indicatore delle persone a rischio di povertà, che “tra il 2005 e il 2009, nonostante la crisi economica, la quota di famiglie in tale condizione è rimasta costante, situazione confermata anche dagli altri indicatori di povertà (assoluta e relativa). Ma come si concilia questo risultato con la crisi economica? L’Istat, come già fatto in occasione del Rapporto Annuale e dei comunicati sulla povertà dello scorso anno, ha ribadito che “la perdita di occupazione che ha caratterizzato il periodo 2008-2010 ha modificato in misura modesta la diffusione della deprivazione materiale, sia perché le famiglie che nel 2010 hanno sperimentato questo tipo di evento mostravano livelli di deprivazione più elevati delle altre già nel 2009 (27 per cento le prime, 15 per cento le seconde), sia perché a perdere il lavoro sono stati soprattutto i giovani che vivono ancora con i loro genitori. Questi ultimi forniscono spesso un contributo modesto al reddito familiare; in questo caso la perdita del lavoro non aggrava in modo significativo le condizioni economiche della famiglia, né accresce la probabilità di trovarsi in condizioni di deprivazione materiale. Anche nel 2010, quindi, la famiglia ha svolto il proprio ruolo di ammortizzatore sociale nei confronti dei giovani, affiancandosi alla cassa integrazione che ha sostenuto una larga quota”. In conclusione, vorrei ricordare che, proprio in occasione della pubblicazione degli ultimi dati della povertà, qualcuno aveva accusato l’Istat di aver tenuto artificialmente basso il numero di “poveri” in quanto non aveva conteggiato quelli “a rischio di povertà”. Ricevere in tempi diversi critiche opposte a una linea di diffusione dei dati chiara e omogenea, in linea con le definizioni adottate a livello europeo, può essere considerato un indicatore dell’indipendenza dell’Istituto.
Fonte: Il Foglio del 26 maggio 2011L’Europa calcola il “rischio” povertà, ma noi non confondiamo i numeri
L'autore: Enrico Giovannini
Commenti disabilitati.