• venerdì , 22 Novembre 2024

Lavorare non stanca

Alzare il tetto dell’età pensionabile permetterebbe un risparmio enorme, di almeno 40 miliardi di euro. Improrogabile.
Finalmente si torna a parlare di pensioni. Primo perché guardando la relazione dell’Istat sui contributi previdenziali erogati nel 2009, si è scoperto che, nonostante le continue rassicurazioni, non è proprio vero che i conti tornano. Secondo, perché il governo sembra intenzionato a mettere nella manovra da 40 miliardi che dovrà portare il bilancio dello Stato in pareggio nel 2014 anche un capitolo previdenziale. Partiamo dalla fotografia dell’Istat. Essa ci dice che i 253 miliardi erogati rappresentato poco meno del 17% del pil, un tasso che sulla base delle previsioni era atteso intorno al 2035 e che ci allontana ancor più dalla media europea (in nessun altro paese Ue il rapporto previdenza-pil è così alto). Ora, è vero che il motivo di questo livello record sta nella recessione (nel biennio 2008-2009 il pil è sceso del 6,5%), che ha fatto aumentare l’impatto degli assegni pensionistici. Ma è altrettanto vero che anche il numeratore di questo rapporto, cioè la spesa per le pensioni, continua a crescere in valore assoluto e che per il denominatore (il pil) le previsioni sono di un recupero assai modesto. Anzi, sempre più modesto, come dice Confindustria, che proprio ieri ha dovuto rivedere un’altra volta al ribasso le stime sulla crescita (+0,9% nel 2011 e +1,1% nel 2012, in entrambi i casi due decimi in meno rispetto alle previsioni di dicembre), ammettendo che “è stato un errore di previsione fidarsi dei primi segnali di rilancio”. Dunque, ecco un primo buon motivo – a prescindere dalle contingenti ragioni di cassa – per intervenire sull’unico fattore correttivo che abbiamo a disposizione, quello dell’età pensionabile. Che va portata a 69 anni, come sono orientati a fare i tedeschi. D’altra parte, basta vedere ancora una volta i dati Istat per capire che occorre agire senza indugio: il 3,6% dei pensionati ha meno di 40 anni, il 29,5% ha un’età inferiore a 64 anni, il 21,6% è oltre gli 80 anni e quindi percepisce la pensione da almeno 15 anni, il 32,8% percepisce più di una pensione, il 25,3% del totale della popolazione è pensionato. Questo significa due cose: che andiamo in pensione troppo presto; che i tempi di versamento delle pensioni sono troppo alti (quasi 19 anni per i maschi e quasi 23 per le femmine) perché l’aspettativa di vita oggi in Italia è di 81 anni (78 per gli uomini e 84 per le donne) ma è un dato destinato ad aumentare velocemente (per il 2050 si parla di quasi 89 anni per le donne e 84 per gli uomini).
Ragioniamo solo sulle pensioni di anzianità. Ora, poiché secondo l’Istat il 24,6% di coloro che la ricevono ha meno di 64 anni e il valore medio di una pensione di questo tipo è di 14.752 euro (per un ammontare di spesa complessivo di oltre 178 miliardi, pari al 70% del totale), se ne deduce che se venisse ridotto il fenomeno dei cosiddetti “baby pensionati” si potrebbe ottenere un risparmio fino a 44 miliardi. E se poi, contemporaneamente, si facesse l’equiparazione uomo-donna e si alzasse l’età di quiescenza, questa cifra potrebbe essere raddoppiata. Infatti, passare da 65 a 69 anni di età pensionabile significherebbe risparmiare a regime almeno una quarantina di miliardi, considerato che solo con l’Inps ogni anno un esercito di circa 700 mila persone entra nel novero dei pensionati. Qui non si tratta di fare macelleria sociale, sia chiaro, ma di maneggiare la matematica e di usare il buon senso, con uno sguardo sempre rivolto al futuro. Anche perché i risparmi realizzati non andrebbero usati solo per aggiustare i conti pubblici, ma anche per fare equità (e con essa spingere i consumi). Infatti, oggi il 12,4% degli uomini percepisce una pensione inferiore a 500 euro e il 23,6% inferiore ai 1000. Se andiamo a osservare la popolazione femminile, il dato è ancora più allarmante: il 16,8% ha una pensione inferiore a 500 euro e il 39,1% inferiore ai 1000 euro. Questo significa che il 36% degli uomini e il 55,9% delle donne se per campare dovesse far conto solo sull’assegno della previdenza vivrebbe ampiamente al di sotto della soglia di povertà. Quindi con i risparmi ipotizzati si potrebbe dare un volto più umano alle pensioni minime, oltre ad aiutare il processo di risanamento finanziario e trovare denaro per gli investimenti finalizzati alla ripresa.
Di fronte a questi numeri, è evidente che se il governo, come si vocifera, decidesse semplicemente di anticipare dal 2015 al 2013 l’automatismo previsto (con l’ultima riformina previdenziale) per l’aumento dell’età di accesso alla pensione – realizzando così risparmi complessivi per 1,2 miliardi – farebbe sì una cosa giusta, ma con tutta evidenza assai limitata. Troppo limitata, se si vuole davvero incidere sia sulla sostenibilità nel medio-lungo periodo del sistema previdenziale, sia sulle necessità di cassa contingenti. Dobbiamo forse perdere tempo come ha fatto la Grecia per trovare il coraggio di fare le cose indispensabili?

Fonte: Il Foglio del 25 giugno 2011

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