• domenica , 24 Novembre 2024

Imprenditori stranieri, i nuovi distretti

Il rapporto Cerved: i casi Genova e Torino e il boom dell’ edilizia romena.
La maggiore concentrazione di piccole imprese gestite in Italia da stranieri non la si trova a Prato, come saremmo portati a pensare, bensì in un quartiere di Genova. Attorno alla piazza Principe della città ligure ben il 43% degli imprenditori è di origine straniera e in testa alla classifica per nazionalità di provenienza spiccano i senegalesi, che da soli rappresentano il 16% delle micro imprese della zona. Se questo è il dato che sorprende di più, la ricerca che Cerved Group ha realizzato sulla dinamica delle imprese gestite da stranieri negli ultimi dieci anni (dal 1 gennaio 2000 al 1 gennaio 2011) fornisce molti spunti e suggerisce altrettante riflessioni. Anche perché in questi dieci anni c’ è stato un mutamento straordinario, ancora agli albori del secolo gli stranieri-imprenditori erano cittadini della Ue o svizzeri mentre oggi vengono in maggioranza dall’ Asia e dall’ Africa. Dopo Genova Principe la maggiore concentrazione di imprese condotte da stranieri la troviamo a Torino nel quartiere Aurora: ha toccato quota 42% e sono i marocchini i leader di mercato. Nella zona di Palazzo Reale a Palermo il 38% dei piccoli non è italiano e in questo caso la nazionalità che spicca è la cingalese. I migranti dallo Sri Lanka rappresentano anche la maggioranza relativa delle aziende straniere che operano nei quartieri Termini e Casilino a Roma mentre a Firenze, nel quartiere Quaracchi, a predominare sono i cinesi. Il dato generale riferito a tutta l’ Italia parla di 442 mila piccoli imprenditori stranieri regolarmente iscritti alle Camere di commercio sotto la forma giuridica di ditta individuale (334 mila) oppure di società di persone (119 mila). In totale nel 2000 erano solo 134 mila e si tratta quindi di un settore ad elevato dinamismo con un tasso di crescita annuo stimato al 23%. Ogni cinque ditte individuali che si costituiscono in Italia ormai una è gestita da un neoimprenditore proveniente da un Paese in via di sviluppo. Per lo più sono imprese poco strutturate dove l’ onere amministrativo e burocratico è tutto in capo a un singolo. Le aziende che superano la soglia di 10 milioni di euro di capitale sono ancora una rarità: una romena, quattro egiziane e una decina cinesi. Come è risaputo gli asiatici godono della maggiore predisposizione al rischio ma hanno anche una tendenza quasi nulla a integrarsi con il tessuto economico italiano. I loro settori a maggiore vocazione sono il commercio, la ristorazione e la produzione di abbigliamento low cost. I romeni amano il rischio imprenditoriale molto meno dei cinesi, sono addensati nell’ edilizia e molto integrati con le imprese italiane, di cui probabilmente hanno cominciato a costituire una sorta di indotto. E le regioni in cui sono più presenti sono Lombardia e Piemonte. Il mattone, del resto, è l’ attività imprenditoriale prevalente anche per i tunisini, i polacchi, i peruviani e gli albanesi. Per far sì che un migrante possa diventare imprenditore in Italia occorrono, secondo i dati Cerved, in media dieci anni di permanenza nel nostro Paese, solo dopo due lustri evidentemente si produce un tasso di integrazione sufficiente per poter organizzare un’ attività economica. I cinesi sono sicuramente i più versati, seguiti dagli egiziani segnalati molto attivi nella zona di Milano. Con alta propensione al rischio sono catalogati anche tunisini e marocchini. Mentre gli asiatici sono autosufficienti, gli indiani cercano un partner italiano prima di avviare un’ impresa sul mercato. Grosso modo analogo è il comportamento dei filippini. Un fenomeno che il Cerved ha messo in luce è che spesso l’ integrazione imprenditoriale segue matrimoni misti tra italiani e stranieri. Un caso limite è quello dell’ Ucraina, il Paese in cui è maggiore la presenza di donne tra gli imprenditori e i soci presenti in Italia. Molte società italo-ucraine sono aziende familiari. Distanziati anche i filippini e i polacchi però sembrano adottare lo stesso modello. Tra i nuovi imprenditori stranieri i più giovani risultano essere romeni, moldavi e albanesi con un’ età media compresa tra i 37 e i 38 anni. Molti immigrati quando decidono di avviare una società lo fanno soprattutto per aprire un ristorante: è il caso dei cinesi (il 52% delle società di persone con soci solo cinesi è attiva nel campo della ristorazione) ma anche degli egiziani e degli indiani. Da segnalare una crescente specializzazione di marocchini e bengalesi nel campo della distribuzione. Il rapporto del Cerved non si sofferma sul caso di Prato, tutto sommato abbastanza conosciuto e portato addirittura all’ onore delle cronache letterarie grazie alla vittoria dello scrittore Edoardo Nesi al recente Premio Strega. Nella città del Bisenzio i cinesi non hanno solo fatto massa critica ma hanno messo in piedi un distretto produttivo parallelo del pronto moda. Questo modello per ora non ha prodotto repliche anche se nella zona attorno a Carpi viene segnalato un forte attivismo di ditte cinesi. Le concentrazioni segnalate dal Cerved a Genova, Torino, Palermo e Roma non hanno le stesse caratteristiche, sono lontane dal diventare dei distretti e comunque ne sappiamo ancora troppo poco. Non conosciamo come si rapportino in termini di fornitura al sistema produttivo locale, che tipo di clientela abbiano (solo etnica o mista) e soprattutto quante di queste attività vivano nel sommerso. È necessario quindi un salto di qualità, non possiamo continuare a considerare la popolazione extracomunitaria e le imprese da essa create al di fuori delle dinamiche dell’ economia italiana. Da parte delle organizzazioni di rappresentanza, segnatamente la Cna, c’ è un interesse crescente a fotografare la nuova realtà, si tratta però fino a questo punto di analisi quantitative. Con qualche eccezione: è uscito, per esempio, di recente un libro di Domenico Perrotta («Vite in cantiere») dedicato alla presenza dei romeni nell’ edilizia. Le considerazioni di carattere economico conducono poi a una riflessione più generale, alla possibilità che proprio in virtù dell’ attività imprenditoriale si possa formare una «classe dirigente etnica» più interessata a collaborare alla gestione delle dinamiche civili e culturali legate all’ immigrazione. Una considerazione, questa, che tira in ballo immediatamente l’ attività delle Camere di commercio.

Fonte: Corriere della Sera del 26 luglio 2011

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