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Un calcio al Paese (vero) che lavora

Il centro studi Arel, quello fondato tanti anni fa da Beniamino Andreatta, ha pubblicato di recente un rapporto sul calcio italiano di ben 150 pagine. Mi permetto di consigliarne la lettura a tutti coloro che in queste ore almanaccano sulle ragioni e sui torti che hanno portato allo sciopero della serie A. La sensazione che si ricava consultando il lavoro dell’ Arel è una sola: l’ industria italiana del calcio non potrà sopravvivere senza una drastica riorganizzazione. Le società fatturano troppo poco rispetto ai concorrenti europei (i ricavi del Milan sono circa la metà di quelli del Real Madrid). L’ incidenza dei diritti televisivi sugli incassi complessivi è arrivata al 64%. Il costo del lavoro è lievitato fino al 68% degli introiti. I debiti salgono al ritmo del 10% l’ anno e nella stagione 2009-2010 il calcio professionistico italiano ha perso nel suo insieme 345 milioni di euro. Mentre il business va a ramengo i calciatori, invece, vivono come in Paradiso. Vantano una forza contrattuale e regole che li mettono nove volte su dieci in una botte di ferro. Ad ogni cambio di casacca lo stipendio sale e grazie all’ opera di procuratori particolarmente versati nelle arti levantine riescono a farsi aumentare gli emolumenti anche prima che scada il contratto. Solo perché in un anno hanno fatto qualche gol in più del previsto. Tanto Bengodi però corrisponde ad una fase di stanca dell’ industria italiana della pedata che, nonostante tratti da pascià i suoi dipendenti, sta retrocedendo nel ranking internazionale. È chiaro che il calcio made in Italy avrebbe bisogno di una signora Thatcher ma non osiamo sperare tanto. Vorremo solo che si avviasse un graduale percorso di risanamento, in linea con quanto sta avvenendo più in generale nel Paese. Anche il football, da noi, vive al di sopra dei suoi mezzi. Ma la riorganizzazione della cassa non è necessariamente in contraddizione con i successi sportivi. Mentre il Barcellona pesca a piene mani dal suo vivaio la nostra serie A spende anche per comprare dall’ estero giovani calciatori. Lo sciopero è indetto in nome del contratto collettivo però ogni calciatore è in realtà super coperto da un contratto individuale milionario e pluriennale che contiene una selva di clausole e codicilli. I divi del pallone sono formalmente dei lavoratori dipendenti con tantissimi diritti e pochi doveri. Da qui la ritrosia a pagare l’ eventuale contributo di solidarietà deciso dal governo, preferiscono che anche quello sia a totale carico dei club. Salvo che tirare fuori dai bilanci delle squadre tra i 50 e i 100 milioni di euro non è un’ operazione indolore. In mezzo a tanta confusione le rose di prima squadra si sono paurosamente ingrossate, viaggiamo ad un media di 38 calciatori per club. I presidenti vorrebbero che alcuni di loro si allenassero separatamente per non intralciare il lavoro degli allenatori, l’ associazione dei calciatori non vuole. Pretende che stiano in gruppo. E così mentre il ministro Roberto Calderoli propone di togliere la pensione alle vedove, l’ Italia celebra il più folle degli scioperi.

Fonte: Corriere della Sera del 27 agosto 2011

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