Nel Novecento erano gli scioperi generali dei tre sindacati confederali a far vacillare i governi, a mettere in ambasce i primi ministri che in qualche occasione brigavano pur di farli saltare. Nell’ epoca nuova, invece, sono i pronunciamenti dei rappresentanti delle imprese e delle banche a segnalare con maggiore efficacia il disagio di un Paese e a indicare il vuoto di autorità e di direzione politica. E’ il segno di un cambiamento irreversibile degli equilibri della nostra società, il compromesso grande impresa-grande sindacato-grande politica è saltato da tempo e sulla scena si sono affacciati nuovi protagonisti. Senza di loro non è minimamente pensabile di poter riavviare il motore della crescita. Si spiega così lo straordinario impatto avuto dal Manifesto delle imprese redatto da Confindustria, Rete Imprese Italia, Alleanza delle Cooperative, Abi e Ania. Un testo la cui stesura ha seguito un iter assai differente dal passato, non ci si è limitati infatti a sommare le rivendicazioni (vecchia prassi!) ma i firmatari hanno individuato, insieme, delle priorità. Ognuno di essi ha rinunciato a una parte delle proprie istanze e in tema di lotta all’ evasione fiscale e di riforma strutturale delle pensioni sono emerse persino disponibilità inedite da parte dei Piccoli. Pur non volendo esagerare la portata del Manifesto, si intravede però in quest’ operazione un cambio di passo, una più netta assunzione di responsabilità e soprattutto una sintonia con lo spirito del tempo. Mentre infatti la politica guarda tutt’ al più il suo ombelico molte cose stanno accadendo in Italia. Le aziende hanno imparato che bisogna ristrutturarsi di continuo, le famiglie hanno capito che occorre studiare strategie di adattamento alla crisi, i giovani guardano sempre più all’ estero come via d’ uscita. Sommato tutto ciò il Paese sembra avere la sensazione che questa volta davvero «niente sarà più come prima» e che oltre a chiedere discontinuità alla politica bisogna saperne anche offrire. Il Manifesto si colloca «dentro» questa presa di coscienza e ne è in qualche maniera il frutto più maturo. È evidente che un aggregato così vasto, un conglomerato della rappresentanza che va dall’ industria alle assicurazioni passando per i commercianti e le banche, non poteva d’ incanto risolvere tutte le contraddizioni interne, a cominciare dalla stretta creditizia che pone oggettivamente in contrasto le imprese con gli istituti di credito. Ma quel che è valido è soprattutto il metodo e i politici che si proclamano più attenti alla crescita e all’ autogoverno della società dovrebbero essere i primi ad applaudire. La capacità di convergere da parte delle imprese e dei servizi è un valore in sé, a prescindere dalle ricadute contingenti che può avere sul quadro politico. Il Manifesto ci fa più sistemici, ci rende più simili ai nostri invidiati partner tedeschi. Il problema, come detto, è un altro e la pubblicazione della lettera della Bce al governo italiano lo ha reso palese. Viviamo in una condizione di vuoto politico, le indicazioni dei banchieri centrali di Francoforte non sono state né accolte né contestate, il governo di Roma ha preferito ignorarle. L’ ignavia è diventata una cultura politica. Quindi ben venga il Manifesto delle imprese perché nel vuoto comunque rinsalda la società, parla agli scorati, costituisce un punto di riferimento programmatico dal quale sarà difficile prescindere. Stiamo dicendo che in questo caos industriali, artigiani e banche fanno supplenza? Sì, è così. Ma sia chiaro: un Paese ha diritto ad avere dei titolari di cattedra.
Fonte: Corriere della Sera del 1 ottobre 2011La pazienza finita dei produttori
L'autore: Dario Di Vico
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