Professor Ichino, i contratti flessibili di lavoro sono diventati ormai uno standard, soprattutto per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro. A quindici anni dal «pacchetto Treu», è possibile fare un bilancio di luci e ombre della flessibilità all’italiana?
«Il nostro tasso di contratti di lavoro subordinato a termine non si discosta significativamente dalla media continentale. La nostra peculiarità è costituita dall’entità del ricorso a forme di collaborazione autonoma, che mascherano prestazioni di lavoro sostanzialmente dipendente. In questo campo le leggi Treu e Biagi non hanno portato alcuna flessibilizzazione: anzi, semmai la legge Biagi ha portato una drastica restrizione. Però le aziende hanno sostituito gran parte delle collaborazioni autonome continuative con il lavoro in regime di partita Iva».
Che cosa intende lei per lavoro sostanzialmente dipendente?
«Oggi si tende a considerare lavoratore sostanzialmente dipendente quello che svolge la propria prestazione in modo continuativo per un’unica azienda, traendone un reddito di livello medio-basso. Se mettiamo insieme i collaboratori coordinati e continuativi, i lavoratori a progetto e i lavoratori a partita Iva che possono essere qualificati come dipendenti secondo quella definizione, in Italia arriviamo oltre i due milioni. Sommati ai contratti di lavoro subordinato a termine, di lavoro interinale e di stage, fanno più di cinque milioni. Questa è la vera anomalia, che un mese fa, insieme a Emma Bonino, Benedetto Della Vedova, Nicola Rossi e alcuni altri, ho denunciato alla Commissione Europea».
È l’abuso del precariato che l’ex-governatore di Bankitalia Mario Draghi ha denunciato nelle considerazioni finali del 31 maggio scorso.
«Proprio quello. Draghi osservava che non è soltanto un problema di equità, ma anche di efficienza, perch´ nessuna impresa investe sulla formazione professionale di un lavoratore precario. Il risultato è che metà della nostra forza-lavoro viene condannata al sottosviluppo professionale».
Che cosa vi proponete di ottenere con la denuncia alla Ue?
«I dati che le ho esposto si spiegano soltanto col fatto che nel nostro Paese questi contratti cosiddetti atipici sono ormai diventati una forma di ingaggio normale. Questo è vietato dalla direttiva europea numero 1999/70. Se la Commissione aprirà una procedura di infrazione contro l’Italia per questa violazione, saremo costretti a riscrivere il nostro diritto del lavoro, in modo da renderlo davvero applicabile a tutto il lavoro sostanzialmente dipendente, superando il regime attuale di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti».
Come dovrebbe essere questo nuovo diritto del lavoro?
«Innanzitutto molto più semplice».
Facile a dirsi.
«Nel 2009 ho presentato con altri 54 senatori un disegno di legge che riduce l’intera legislazione sul rapporto di lavoro di fonte nazionale a 70 articoli brevi, comprensibili da chiunque e traducibili in inglese. Questo nuovo Codice del lavoro semplificato potrebbe benissimo applicarsi a tutta l’area del lavoro dipendente, compresi i cinque milioni di paria di cui abbiamo parlato, garantendo alle imprese una flessibilità molto maggiore e al tempo stesso una sicurezza economica e professionale molto maggiore ai lavoratori».
Sta parlando del «contratto unico» a protezioni crescenti?
«L’espressione contratto unico può far pensare a un appiattimento, a una camicia di Nesso per il tessuto produttivo. Preferisco parlare di un diritto del lavoro unico a protezioni crescenti. L’idea-cardine comunque è questa: tutti a tempo indeterminato, tranne i casi classici di contratto a termine; a tutti le protezioni essenziali; ma nessuno inamovibile. E a tutti coloro che perdono il posto una robusta garanzia di continuità del reddito, assistenza intensiva e investimento sulla loro professionalità, nel passaggio dalla vecchia alla nuova occupazione. Oggi, in forza dell’articolo 8 del decreto di Ferragosto, questo nuovo Codice del lavoro semplificato potrebbe essere anche scelto dall’impresa, mediante contratto aziendale, per tutti i nuovi rapporti di lavoro».
Ma i lavoratori italiani non sembrano disposti a rinunciare all’articolo 18.
«Chi oggi fruisce della protezione dell’articolo 18, cioè meno della metà del totale dei lavoratori italiani dipendenti, può anche continuare a goderne. La nuova disciplina può applicarsi a tutti i rapporti di lavoro dipendente destinati a costituirsi da qui in avanti: in questo modo nel giro di sei-otto anni si applicherà al novanta per cento della nostra forza-lavoro dipendente».
Chi paga per la maggior sicurezza economica del lavoratore licenziato?
«Esentare dal controllo giudiziale i licenziamenti dettati da motivi economici o organizzativi significa evitare alle imprese gli attuali gravi ritardi con cui esse possono procedere all’aggiustamento industriale. In quel risparmio ci sta dentro ampiamente un trattamento complementare di disoccupazione che ci allinei con i Paesi scandinavi. Questo prevede il Codice del lavoro semplificato di cui le ho parlato».
I contratti flessibili sono tanti. Quali di questi dovrebbero essere soppressi e quail potrebbero essere utilizzati utilmente per incrementare l’occupazione, in specie giovanile e femminile?
«Nel nostro progetto non ne eliminiamo nessuno. Proponiamo soltanto di stabilire una protezione unica della sicurezza economica e professionale del lavoratore nel passaggio da un lavoro a un altro, applicabile a tutti i tipi di contratto di lavoro, quando il lavoratore sia in una posizione di sostanziale dipendenza, definita come le ho detto sopra».
Il ministro Sacconi punta molto sul nuovo contratto di apprendistato, che dovrebbe sostituire molte forme di flessibilità.
Che cosa ne pensa?
«L’apprendistato è una forma di accesso al tessuto produttivo molto importante, sulla quale è giusto investire. Ma non può essere l’apprendistato a garantire la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno: anche perch´ essa non riguarda soltanto i primi due o tre anni di lavoro dei new entrants».
“Ora ripartiamo da capo”
Commenti disabilitati.