• venerdì , 3 Gennaio 2025

Il governo sa che il rischio è troppo alto per non intervenire sul mercato del lavoro

E se la crisi fosse una guerra combattuta con altri mezzi? Anzi la terza guerra mondiale, addirittura? La Grande Guerra ebbe come posta in gioco la distribuzione delle colonie tedesche e l’eredità dello smembramento dell’Impero Ottomano (che galleggiava sul petrolio senza essersene accorto). La Seconda guerra mondiale divenne la conseguenza inevitabile, tra le altre cause, della politica di riarmo con cui gli Stati, in una tragica rincorsa tra loro, avevano fatto fronte alla crisi economica del ’29. Oggi si combatte per l’intercettazione dei capitali finanziari che si spostano tra le diverse aree del mondo alla ricerca dei rendimenti più convenienti.
La vera novità degli ultimi anni è che a sedersi al tavolo della spartizione sono arrivati gli Stati con il loro debito sovrano. Per dare un’idea del problema, si ricorda che, nel corso del 2012, il governi mondiali dovranno prendere a prestito dai mercati, in concorrenza con gli investimenti nelle economie dei paesi emergenti, 11mila miliardi di dollari: 1,4mila miliardi l’Europa, 4,7mila gli Usa, 3mila il Giappone. Ciò, senza calcolare l’ammontare delle obbligazioni bancarie. Questa mole di debito – il cui corrispettivo in termini di liquidità è essenziale per la vita quotidiana delle comunità – è costretta a contendersi le disponibilità finanziarie attraverso l’entità dei tassi di interesse e la garanzia di solvibilità, due parametri che si tengono insieme in un legame inversamente proporzionale.
Qui sta la principale differenza con la tanto evocata crisi del 1929 (e degli anni seguenti). Allora, furono gli Stati ad andare in soccorso dell’economia e ad alleviare i costi sociali della crisi, istituendo al di qua e al di là dell’Oceano, i grandi sistemi di welfare pubblico. L’anno-chiave fu il 1933: se ne uscì negli Usa con Roosevelt, in Europa con Hitler. E se l’alternativa prospettica, mutatis mutandis, fosse ancora questa? Oggi gli Stati finiscono per ammazzare l’economia, caricandola di tasse (da noi la pressione fiscale sarà pari al 43,8% nel 2012) ; e per ridurre le forme di protezione sociale, dovendo ridimensionare la spesa pubblica e tagliare i servizi. Questo è lo scenario dove si consuma la nostra possibilità di evitare il default.
Agli italiani hanno fatto credere, grazie ad una campagna politica e mediatica devastante, che gran parte dei problemi si sarebbero risolti allontanando Silvio Berlusconi ed affidando le sorti del paese all’esecutivo del Presidente. È inutile ricordare che si trattava di una colossale montatura, perché le ritorsioni non servono ad uscire dalle difficoltà. Il differenziale tra Btp e Bund rimane elevato. Ma soprattutto sono i tassi di interesse a mandare segnali preoccupanti. I tassi a breve dei Bot a 6 mesi sono passati dal 3,07% dell’asta di settembre al 6,5% di quella di novembre. I tassi dei Btp poliennali viaggiano sopra il 7%. Ciò significa che dovremo sostenere per anni un servizio del debito assai oneroso, destinandovi risorse preziose per altre finalità. Si calcola che la spesa per interessi nel 2012 aumenterà del 21,9% (8,4 miliardi), nel 2013 del 7,5% (10,5 miliardi) e nel 2014 del 4,3% (11,3 miliardi).
Dopo il decreto ‘ Salva Italia’ il governo ha aperto il fronte delle liberalizzazioni nella convinzione di fornire un contributo alla crescita. L’operazione è sicuramente importante e significativa. Ma sarà in grado di invertire una tendenza alla stagnazione economica che proviene direttamente da una contrazione del commercio mondiale? A fronte di una crescita del 12,3% nel 2010, nel 2011 si è riscontrato soltanto un +6,4% che si ridurrà al 5% nell’anno in corso. Il Governo ha compreso che c’è il problema di definire nuove regole a livello europeo, alla ricerca di un maggiore equilibrio tra rigore e sviluppo nel presupposto che un paese è credibile non solo se i suoi conti sono in sicurezza, ma anche se è attraente e competitivo. Nessun creditore si augura il fallimento del suo debitore perché sa che altrimenti non sarebbe più in grado di onorare gli impegni con la necessaria puntualità.
Si apre oggi, a Palazzo Chigi, un confronto molto importante sulla riforma del mercato del lavoro che rappresenta il passepartout di ogni politica di crescita, assai più dei piani, dei programmi, degli incentivi pubblici e di quant’altro appartiene al bagaglio culturale della sinistra. Nei palazzi della politica romana si racconta di una conversazione telefonica tra un autorevole ministro dell’attuale governo ed uno dei candidati alla successione di Emma Marcegaglia più o meno di questo tenore in vista del confronto che si aprirà domani a Palazzo Chigi. L’imprenditore avrebbe detto di essere in possesso di un lungo elenco di imprese che sono pronte a trasferirsi in Croazia e in Serbia se da noi non si varano, in breve tempo, misure di riforma e di flessibilità del mercato del lavoro. Si tratta di Paesi confinanti con il Nord Est, la cui manodopera è qualitativamente competitiva con quella italiana (anche perché nella fabbriche italiane ormai lavorano tanti stranieri) e che assicurano oneri fiscali e contributivi, costi e condizioni di lavoro ben più vantaggiosi dei nostri. Il pericolo è reale. Le parti sociali hanno a loro disposizione uno strumento molto importante: quell’articolo 8 del decreto di ferragosto – demonizzato per mere ragioni di calcolo politico – che, se applicato in piena autonomia, potrebbe consentire di stipulare accordi sull’organizzazione e sugli orari di lavoro, più adeguati alle sfide che le imprese devono affrontare per competere sui mercati globali.

Fonte: Occidentale del 23 gennaio 2012

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