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Quella riforma del lavoro che non conviene a nessuno.

Si stava meglio quando si stava peggio? La cupa, primissima impressione dopo il round d’avvio della trattativa sulla riforma del mercato del lavoro tra il governo e le parti sociali è proprio questa. Sia per le modalità atipiche dell’incontro, sia per le avvisaglie di quelli che potrebbero essere i suoi esiti. Andiamo con ordine. Innanzitutto, le modalità. Elsa Fornero, ministro volenterosissimo e in buona fede del welfare, non ha ritenuto di consegnare ai suoi interlocutori una bozza scritta dei punti salienti del progetto governativo, ma si è limitata a leggere una dichiarazione d’intenti: otto cartelle di una specie d’omelia difficile da seguire, prima ancora che da capire. Tanto che Confindustria e sindacati hanno concordato di produrre loro una bozza sulla cui base “incardinare” il confronto.
L’altro barlume di certezza è invece inquietante nel merito, perché la riforma punterebbe a ridurre il ricorso alla cassa integrazione straordinaria, cioè al principale dei nostri ammortizzatori sociali “di ultima istanza”, quelli che precedono la disoccupazione. Il che, con i prepensionamenti resi più difficili dall’innalzamento dell’età pensionabile, configura un quadro fosco sulla gestibilità di una stagione di crisi e ristrutturazioni industriali che, purtroppo, è appena cominciata.
Dice della Fornero un osservatore ormai un po’ distante ma preparato e duro come Sergio Cofferati: “Sa molto di previdenza, poco o niente di mercato del lavoro”. Si sa che la professoressa è una che studia, ha sempre studiato e certamente l’ha fatto anche stavolta. Si sarà fatta una scorpacciata di teorie sul mercato del lavoro, quindi. Ma le trattative sindacali, tantomeno in questa materia, non sono algebra, gestirle è diversissimo dal risolvere equazioni: sono fatte di mediazione, caratterialità, attacchi e difese, sistemazioni progressive. Sono fatte di politica, materia scivolosa per i tecnici.
Ma c’è dell’altro ed è quanto di più sostanziale va esaminato. Quel “si stava meglio quando si stava peggio” va onestamente riferito anche al quadro attuale di un mercato del lavoro dove i pur sacrosanti strumenti della flessibilità in entrata – cioè i ben 46 contratti atipici che regolano (si fa per dire) l’accesso all’occupazione – vengono spesso piegati agli interessi del puro risparmio e del puro rifiuto del rischio d’impresa. Gli imprenditori, cioè, da un lato subiscono l’illogica impossibilità di licenziare chi per responsabilità propria – disaffezione al lavoro, sopraggiunta incapacità al cambiamento delle mansioni e quant’altro – o per fattori oggettivi sia divenuto inutile o dannoso alla produttività aziendale; ma dall’altro si rivalgono protraendo all’inverosimile le formule di parasubordinazione che consentono loro di pagare molto meno del dovuto la forza lavoro e di non vincolarsi in alcun modo ai costi fissi di un organico assunto in pianta stabile. Ma così la flessibilità alimenta una forma di precariato infinito.
Se da una parte minoritaria ma consistente del sindacato, la Cgil, continua a essere sollevata come un totem l’inviolabilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dalla parte della Confindustria c’è il no pregiudiziale all’adozione di formule di “flexecurity” alla scandinava, come quelle propugnate dalla proposta di riforma avanzata da Pietro Ichino, che caricano sulle imprese più responsabilità sociali (e quindi economiche) sulla gestione degli esuberi. L’attuale sistema, in definitiva, fa comodo alle imprese, per quanto se ne lamentino, più di una riforma che le responsabilizzasse maggiormente, in nome di una maggiore liberalizzazione dei rapporti: è vero che oggi non possono licenziare, ma possono in compenso “assumere senza assumere”.
Il lavoro parasubordinato gli costa poco e ricorrervi massicciamente non comporta rischi. L’ipertrofica e iperattiva magistratura del lavoro che negli anni Settanta era sempre lì con il fucile spianato contro gli imprenditori, pronta a intimare loro di assumere “d’ufficio” chiunque lamentasse di aver indebitamente prestato servizio per tre ore all’interno di una struttura aziendale, o utilizzando strumenti aziendali, ebbene, quella magistratura oggi dorme. Per cui si hanno centinaia di migliaia di lavoratori a progetto e co.co.pro, per non dire stagisti, gravati in realtà di funzioni in tutto e per tutto equiparate a quelle dei lavoratori dipendenti. Tutto questo fa comodo alle imprese. E non poter licenziare è meglio se il prezzo della licenziabilità degli infingardi dovesse essere quello di garantire loro un periodo di sostegno al reddito durante il quale aiutarli a cercare una nuova occupazione…
Così come negli anni Settanta i sindacati pretendevano che il salario fosse una “variabile indipendente”, così oggi troppo spesso il ceto imprenditoriale pretenderebbe che l’utile e il dividendo fossero “variabili indipendenti”. Mentre è evidente che la crisi chiama tutti a sacrifici e a svolte ideologiche radicali: i sindacati ad accettare compressioni salariali e abbattimento dei vecchi tabù; gli imprenditori ad ammettere un maggior peso degli oneri sociali e un maggior rischio d’impresa, a fronte di una maggiore flessibilità.
Per portare avanti su binari così simmetricamente indigesti una riforma del mercato del lavoro di contenuto “europeo”, sarebbe necessario che il governo sapesse, insieme, essere estremamente “impolitico” ma anche accortamente negoziatore. Che la Fornero sia “impolitica” è una caratteristica che anche i detrattori le riconoscono. Saprà essere anche negoziatrice? Per ora, non l’ha dimostrato.

Fonte: Sussidiario.net del 24 gennaio 2012

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