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Quei 2.000 Tir dell’Est che dimezzano i prezzi

Per la gran parte appartengono a quattro nazionalità (rumeni e bulgari, serbi e russi) ma anche i turchi cominciano ad essere un bel po’. Sono i camionisti dell’Est, avversari giurati dei nostri padroncini, uomini che conducono una vita agra e interamente low cost , lontano dalle famiglie e dal loro Paese, sempre alla ricerca di un ingaggio per poter guadagnare cento euro in più. Via via che le ditte di Stato sono state privatizzate i Tir dell’Est hanno cominciato a battere le nostre strade. L’autotrasporto si è rivelato il business più facile in cui entrare per ex agricoltori, ex operai e persino ex poliziotti dei Paesi del vecchio Patto di Varsavia. All’inizio erano ditte piccole, un po’ come le nostre, e avevano tutt’al più un camion, poi sono arrivati i pesi medi che hanno cominciato a seguire il flusso delle merci. Ora saranno un migliaio le imprese che operano con continuità nel Belpaese. Nostre strade. Prima si andava da Ovest ad Est e le società di trasporto del Friuli Venezia Giulia la facevano da padrone. Poi le merci sono cominciate ad arrivare anche da Est verso l’Italia ed è cambiato tutto. Se un camionista arriva a Treviso o a Brescia con il suo carico non se ne ritorna vuoto il giorno dopo. Preferisce star qui anche venti giorni ad aspettare un altro carico. E nel frattempo che fa?
I Serghei e gli Ivan dell’autotrasporto in dumping aspettano nelle zone vicino alle dogane. Si organizzano in gruppi che vanno dalle 20 alle 40 unità. A Pioltello nell’hinterland milanese, a Cernusco sul Naviglio ma anche vicino Livorno, Ravenna o Campogalliano nel Modenese. La prima volta che la stampa italiana ne ha parlato risale al 2009 quando il sindaco di un piccolo Paese della Romagna, Conselice, lanciò l’allarme perché si era formata da giorni una coda di venti Tir russi in attesa di caricare merci per non tornare vuoti in patria. L’amministrazione comunale allestì addirittura un bagno chimico e la multi utility Hera collocò un contenitore di rifiuti. «Vorremmo convogliarli verso aree più attrezzate ma i russi fanno orecchie da mercante e non spostano i loro Tir» dichiarò il sindaco.
Le piazzuole vicino alle dogane sono il loro piccolo villaggio. Vivono lì, dormono sui Tir, a sera aprono le scatole di ferro che conservano sotto il camion vicino al serbatoio e tirano fuori il fornello a gas e i piatti. Nei supermercati intorno comprano pane, yogurt, uova e un po’ di carne e questo è il loro pranzo e cena per venti giorni di seguito. Per i vestiti si rivolgono alla Caritas e lasciano qualche euro, qualcuno arriva persino a rivenderseli per guadagnarci su. Quando non ce la fanno più, psicologicamente o per il freddo, scatta l’ora della vodka a volontà e c’è il rischio di qualche bravata. Le notizie sulle risse nelle piazzuole circolano poco ma chi le frequenta saltuariamente parla di un clima di tensione perenne. È gente che lotta per la vita, i vecchi diffidano dei nuovi arrivati, la concorrenza è spietata anche se tutti comunque stanno attenti che non succedano incidenti per strada. Sarebbe la loro squalifica. Queste piccole comunità di russi e bulgari espatriati sono a loro volta oggetto di attenzioni da parte dei mercanti del sesso che recapitano in zona ragazze moldave e bielorusse.
Quanti sono gli sventurati autisti dell’Est che lavorano in Italia? Diciamo che in un giorno normale come oggi ce ne saranno all’incirca 2 mila, se il calcolo lo facciamo su base annua, seppur a rotazione, si può dire che passino da noi dai 10 ai 13 mila conducenti di Tir provenienti dall’Europa dell’Est. Hanno un età che varia dai 35 ai 50 anni, i giovani non vengono a fare questa vita e quelli più vecchi non la possono più reggere. Gli italiani non li amano. Giosualdo Quaini, responsabile regionale del Friuli Venezia Giulia della Fita-Cna denuncia da tempo il fenomeno di quelli che chiama «cottimisti». Quaini sostiene che i nostri padroncini hanno la cultura del camion e magari la passione delle quattro ruote l’hanno mutuata dal padre, «i low cost invece fanno quel lavoro perché non ne saprebbero iniziare un altro». Per i camionisti stranieri non esistono diritti, «welfare è una parola che non hanno mai sentito nemmeno nominare» e se rompi un fanale rischi che il padrone la volta successiva ti lasci a casa. E amen.
È chiaro che avere a disposizione una manodopera a bassissimo costo e disposta a quasi tutto, ha fatto ingolosire squali e squaletti dell’autotrasporto made in Italy. Un autista italiano che lavora 160 ore in un mese porta a casa un po’ più di 2 mila euro e ha anche diritto a tredicesima e quattordicesima. Un serbo prende, invece, uno stipendio fisso di 300 euro più il 10% del valore del viaggio. Mal contati altri 100 euro. Se un trasporto dall’Italia alla Serbia una ditta italiana lo fattura 2 mila euro, loro lo fanno pagare mille, grazie anche al gasolio che costa meno. Ma in questa infernale scala del lavoro debole e mal pagato c’è sempre qualcuno che sta peggio e dunque un bulgaro è pagato sul mercato meno di un serbo. Si sa che è più disperato. Per cui può succedere che ditte di Belgrado o Bucarest preferiscano ingaggiare autisti bulgari piuttosto che i connazionali. Bandiere in questo mondo non ne esistono. Qualcuno dei conducenti paga alla ditta per cui lavora persino il posto letto nel camion (dai 100 ai 200 euro). Con tutti questi vincoli i camionisti a cottimo sono dunque disposti ad accettare qualsiasi viaggio in dumping. Se un carico da Milano a Udine una ditta italiana lo fa pagare all’incirca 700 euro, serbi e rumeni si accontentano di 300 e i lavori li trovano grazie al passaparola. Del resto l’autotrasporto è un business fatto da mille intermediari: broker, spedizionieri, agenzie, chiunque è riuscito a trovare il modo per stare sul mercato e per ricavarsi la sua nicchia di guadagno. Per gente così che non guarda in faccia nessuno avere a disposizione autisti bulgari, serbi o rumeni che non fanno storie è quasi un modello di business.

Fonte: Corriere della Sera del 25 gennaio 2012

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