• venerdì , 22 Novembre 2024

C’è un “jolly” che risolve la guerra sull’art.18

I have a dream. Ho fatto un sogno. Il benefico influsso del “Governo degli Illuminati” determinava un’assunzione di responsabilità delle parti sociali, che, resesi conto di dover mandare, come sistema Italia, un segnale forte e chiaro alla Comunità internazionale e ai mercati per quanto riguarda l’articolo 18, decidevano di agire in proprio, senza che si rendesse necessaria un’azione unilaterale da parte dell’esecutivo, a quanto pare deciso a procedere comunque.
Qualche sindacalista si ricordava di avere a disposizione uno strumento pertinente e molto efficace: l’articolo 8 del decreto di Ferragosto, l’ultima intuizione del ministro Maurizio Sacconi, una norma tanto bistrattata dai “mozzorecchi” della sinistra, meritevole, invece, di particolare interesse e di un’effettiva rivalutazione. Quando fu varata, persino la Confindustria, in fase di “amorosi sensi” con la Cgil, accettò di prenderne le distanze, provocando le proteste di Sergio Marchionne e l’uscita della Fiat.
Che cosa stabilisce l’articolo 8 (e che cosa consentirebbe di fare se venisse sbrinato dal freezer in cui è stato posto)? Tra le altre prerogative loro riconosciute, le parti sociali comparativamente più rappresentative, hanno la possibilità, mediante specifiche intese decentrate, stipulate anche in deroga alle vigenti disposizioni di legge, di regolare diversamente le modalità di assunzione e la disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni e le partite Iva, nonché la trasformazione e la conversione dei contratti di lavoro, le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, eccezion fatta per i casi di discriminazione e di maggiore gravità.
È il pacchetto di problemi all’ordine del giorno nel confronto con il governo: dalla cosiddetta lotta alla precarietà alla revisione dell’articolo 18. Monti e Fornero sarebbero ben felici di prendere atto, in tema di mercato del lavoro, di una svolta riformista dell’autonomia collettiva, resa operativa attraverso il protagonismo dei sindacati, della Confindustria e delle altre associazioni datoriali, magari in via sperimentale, prioritariamente in alcune aree territoriali con particolari criticità sul piano dei livelli di occupazione. È noto, per esempio, che il ministro Elsa Fornero sarebbe interessata a sperimentare, tramite intese a livello regionale, il progetto Ichino, sia pure con qualche aggiustamento per renderlo meno complicato nella gestione e meno oneroso per le imprese. Rimarrebbe, poi, il problema di una modifica strutturale dell’articolo 18.
Nelle ultime ore sono emerse nel dibattito talune significative aperture da parte del sindacalismo riformista, nelle interviste dei leader di Cisl e Uil. Ferma restando la nullità dei licenziamenti discriminatori e per gravi motivi, sempre sanzionabili con la reintegra, sembra farsi strada l’ipotesi di distinguere tra licenziamento di carattere economico (cosiddetto oggettivo) e quello disciplinare (cosiddetto soggettivo). Mentre il secondo resterebbe regolato dall’articolo 18, il primo sarebbe sostanzialmente assorbito dalle norme sui licenziamenti collettivi (legge n.223 del 1991) e dalle procedure di carattere sindacale ivi previste.
In fondo, il confine che trasforma in licenziamenti collettivi i recessi di tipo individuale si attesta sul numero di 5 richieste. Regolare in modo più adeguato i licenziamenti per motivi economici significherebbe anche dare corso a quanto contenuto, in merito, nella “lettera di intenti” presentata il 26 ottobre scorso da Silvio Berlusconi al vertice del G-20. Ci sono, poi, altri problemi da risolvere, come ridurre la durata del processo e prestabilire dei limiti all’indennizzo e al pagamento delle retribuzioni non percepite (l’effetto della combinazione perversa tra reintegra, anni di durata del procedimento e ricadute economiche per il datore produce un sovraccarico negativo che contribuisce a scoraggiare nuovi investimenti).
Una norma siffatta (che pone dei limiti al risarcimento del danno all’interno di una fascia di mensilità prestabilita) è contenuta, mutatis mutandis, nel “Collegato lavoro” (legge n. 183 del 2010), nel caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine sanzionato come illegittimo in giudizio. Per questa norma è stata sollevata l’eccezione di costituzionalità, ma la Consulta ha respinto il ricorso. La ragionevolezza prima o poi viene riconosciuta.

Fonte: Sussidiario.net del 7 febbraio 2012

Articoli dell'autore

Commenti disabilitati.