Ha ragione il ministro Fornero: senza una radicale riforma del mercato del lavoro «il sistema produttivo italiano non riuscirà a risollevarsi». È altresì condivisibile, e comunque opportuna, la decisione del ministro di sospendere temporaneamente il confronto con le parti sociali in attesa di chiarimenti sul tema delle coperture per gli ammortizzatori sociali.
Ma la questione delle coperture è solo uno dei due aspetti del problema degli ammortizzatori. L’altra questione, forse ancora più importante e chiaramente enunciata dal ministro, è come far sì che le persone che hanno perso un lavoro non rimangano troppo a lungo a carico della collettività e trovino al più presto un nuovo lavoro. Nella maggioranza dei Paesi europei, e sicuramente in Germania dopo le riforme dei primi anni 2000, questo è un problema che viene affrontato dal settore pubblico.
Il punto essenziale è che il lavoratore che rifiuta un’offerta di lavoro o anche solo un corso di formazione rischia concretamente di perdere il diritto al sussidio. Flexsecurity è una bella parola, ma funziona solo se ci sono regole rigorose. Da noi questo meccanismo non funziona, essenzialmente perché, con rare eccezioni, gli uffici del lavoro non sono i luoghi in cui si incrociano la domanda e l’offerta di lavoro. C’è anche un problema di risorse, dal momento che per le politiche attive l’Italia spende lo 0,37% del Pil, contro l’1% di Germania e Francia e l’1,48 della Danimarca. Per quanti sforzi si possano fare per rendere efficienti gli uffici del lavoro e coordinarli con l’Inps, è difficile immaginare che sia il settore pubblico a risolvere il problema. Come fare dunque?
Come noto, già oggi esistono incentivi per le imprese che assumono persone che hanno perso un lavoro. Questo può andar bene, ma non basta. Se dopo un primo contatto informale, che tipicamente non passa attraverso gli uffici del lavoro, il lavoratore rifiuta l’offerta che gli viene avanzata da un’impresa, questa non ha nessuna ragione di comunicarlo all’ufficio o all’Inps. Quindi la mancata accettazione di un’offerta non comporta quasi mai la perdita del sussidio pubblico. Anche se sulla carta è tutto a posto: per avere diritto a qualunque sussidio, dalla cassa integrazione alla mobilità, il lavoratore deve firmare un modulo, detto Did, in cui dichiara «di essere immediatamente disponibile allo svolgimento di un’attività lavorativa». Grida manzoniane, naturalmente.
Un modo per affrontare il problema è quello di disegnare un sistema di incentivi e disincentivi rivolti al lavoratore. In alcuni casi, i disincentivi già ci sono e prendono la forma di sussidi che decrescono nel tempo. Si potrebbe aggiungere un incentivo, nella forma di un’erogazione al lavoratore di una parte del sussidio non fruito.
Un’altra idea, forse più promettente, fa leva sulla sussidiarietà. Il ruolo che dovrebbero svolgere gli uffici pubblici potrebbe essere svolto da agenzie private, come è stato proposto da Pietro Ichino, o da fondi bilaterali che si occupino di formazione e ricollocazione dei lavoratori. La premessa logica di un’idea del genere è che l’istituto della reintegrazione previsto dall’articolo 18 venga mantenuto solo per alcuni casi limitati, quali la discriminazione. Quale che sia l’architettura giuridica che si vorrà dare al nuovo sistema, è probabile che, nella maggior parte dei casi e comunque con l’ovvia eccezione del caso di colpa grave del dipendente, il licenziamento comporterà l’erogazione di una somma in denaro da parte dell’azienda al lavoratore, come avviene in altri Paesi.
In questo quadro, la legge o i contratti collettivi potrebbero stabilire che una parte di questa somma possa essere erogata sotto forma di servizi di outplacement, direttamente o tramite un contratto con un’agenzia privata o un fondo bilaterale. Per rendere efficiente il sistema, si può ipotizzare che, nel caso in cui l’impresa offra il servizio di outplacement, la somma in denaro, o un parte di essa, venga erogata non subito, ma gradualmente e dopo un certo numero di mesi. In caso di successo, la persona viene ricollocata e l’impresa smette di erogare le mensilità residue. Così farebbe anche l’Inps, sospendendo il sussidio pubblico, dato l’obbligo in capo al nuovo datore di lavoro di comunicare l’avvenuta assunzione. Questo sistema darebbe un incentivo all’impresa che licenzia a stipulare contratti di outplacement efficienti. L’incentivo sarà tanto più forte e la probabilità di successo dell’operazione tanto maggiore quanto più ampia sarà la quota dell’indennità che potrà essere differita nel tempo e quanto più lungo il periodo di differimento. Una versione più soft di questa idea prevede di lasciare al lavoratore la scelta fra le due tipologie, tutto cash subito o erogazione mista con outplacement. In questo caso, si potrebbe prevedere un incentivo al lavoratore affinché scelga la seconda soluzione. Le pur poche risorse che oggi vengono assorbite dagli uffici pubblici andrebbero reindirizzate per lo sviluppo della sussidiarietà nelle politiche del lavoro. Non importa di che colore è il gatto.
Il rilancio parte dal lavoro
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