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I veti fuori dal tempo

Verbalizzare al posto di concertare. Con la richiesta del premier Mario Monti di mettere fine alle lungaggini del confronto con le parti sociali e di scrivere nero su bianco le obiezioni avanzate al testo governativo è finito un lungo ciclo della storia socio-politica dell’Italia. La concertazione, che pure non dimentichiamo era stata definita come «la nostra Costituzione materiale», ieri è andata in pensione. Davanti all’incapacità del sindacato di presentarsi a Palazzo Chigi con una proposta credibile, una piattaforma capace di delineare un nuovo tipo di scambio all’altezza delle sfide che si devono affrontare in un’economia integrata, il governo Monti alla fine ha tirato dritto.
Si è richiamato in un crescendo prima alle ragioni dei non garantiti, poi ha messo in guardia da ulteriori esercizi del potere di veto, infine ha riaffermato il potere del Parlamento. Toccherà ai politologi spiegare il paradosso di un governo tecnico che, accusato di aver confiscato le prerogative della politica, le riconsegna invece lo scettro nell’ora delle decisioni difficili.
Per quanto a un primo superficiale esame quello raggiunto sull’articolo 18 possa sembrare un ennesimo accordo separato (senza la Cgil), la novità è più profonda e solo l’abilità tattica di Luigi Angeletti e Raffaele Bonanni l’ha in parte mascherata. Se infatti la Cgil può pensare di rispondere alla crisi della concertazione con un (illusorio) ricorso al movimentismo, Cisl e Uil dovranno per forza avviare una riflessione di carattere strategico. Ben venga e speriamo che coinvolga tutti i corpi intermedi. La democrazia italiana, nella versione universalistica e anti-consociativa che ieri ci hanno proposto il premier Monti e il ministro Fornero, deve azzerare le rendite del veto ma ha bisogno comunque di una rappresentanza responsabile, capace di essere classe dirigente «dal basso».
La riforma Fornero per come si è delineata ed è stata esposta è solo una prima rata. L’obiettivo è ambizioso: superare il dualismo del mercato del lavoro e costruire un welfare dinamico e non meramente risarcitorio. Di fronte alla gravità della recessione un governo «normale» avrebbe aspettato tempi migliori, ma l’Italia dell’incubo-spread non può permetterselo. E di conseguenza ha iniziato ad affrontare alcune delle contraddizioni più evidenti quali lo straripante numero dei precari, l’abnorme crescita del numero delle partite Iva, l’assenza di un moderno sistema di ammortizzatori sociali e la presenza, invece, di una normativa ipergarantista sulla flessibilità in uscita.
Lo scambio vincente in assoluto sarebbe stato «più lavoro per nuove regole», ma come è purtroppo ormai assodato la crescita non si fa per decreto e quindi, volenti o nolenti, siamo costretti a lavorare oggi per crearne le condizioni domani. Il governo, però, giunto a questo punto ha un obbligo quasi morale: la stessa determinazione che ha messo in campo nella fase uno deve replicarla nell’auspicata fase due.

Fonte: Corriere della Sera del 21 marzo 2012

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