Per la prima volta nei giorni scorsi un organo delle istituzioni, come la commissione Lavoro del Senato, ha chiesto a un’ associazione delle partite Iva (Acta) di inviare una memoria in occasione dell’ iter parlamentare della riforma del lavoro firmata Elsa Fornero. I senatori avrebbero potuto scegliere più compiutamente la strada dell’ audizione – come fanno normalmente per Confindustria e sindacati – ma non è stato così. Comunque un primo passo per ascoltare la voce delle partite Iva è stato fatto. Ma non è tutto.
La memoria elaborata da Acta è estremamente interessante perché mette a fuoco quelle che sono considerate le principali differenze di trattamento tra lavoratori dipendenti e consulenti a partita Iva. Farà discutere i senatori la comparazione della contribuzione Inps che nel caso del lavoro autonomo passa attraverso la cosiddetta gestione separata, come per i parasubordinati. Il prelievo previdenziale per le partite Iva nel 1996 era al 10% ed è arrivato in pochi anni quasi a triplicare: dal 2012 è a quota 27,72% «con aumenti – sottolinea Anna Soru, presidente di Acta – che spesso hanno coinciso con la necessità di far cassa per finanziare misure a favore di altri lavoratori». Come nel caso dell’ accordo per il welfare del 2007 che consentì il pensionamento a 58 anni di lavoratori in regime retributivo o ancora di recente con l’ incremento legato alla manovra dell’ agosto 2011 a favore dell’ apprendistato. La riforma Fornero, secondo Acta, torna nel luogo del delitto perché prevede un aumento di altri 6 punti dal 27 al 33% che servirà a coprire le spese per gli esodati e il nuovo Aspi. «La verità – sostiene Soru – è che contrariamente a quanto si sostiene la nostra contribuzione pensionistica è già ora superiore a quella di tutti gli altri lavoratori, inclusi i dipendenti». L’ equivoco nasce dalla comparazione tra due modalità diverse di calcolo. Per questo motivo Acta ha predisposto una tabella sinottica (vedi in pagina) che prende in esame un lavoratore dipendente il cui costo del lavoro annuale per l’ azienda sia di 40 mila euro. E gli ha affiancato un professionista autonomo iscritto alla gestione separata Inps con un fatturato di 40 mila euro. La conclusione è che mentre per il dipendente la contribuzione pensionistica totale è pari al 25,63% del costo del lavoro, per il professionista è del 27% del fatturato. Spiega Soru: «Un dipendente il cui costo del lavoro è di 40 mila euro ha una retribuzione annua lorda di 31.060 euro ed è su questo ammontare che vengono calcolati i contributi pensionistici (10.250 euro, ndr)». Ciò ovviamente non vale per il professionista autonomo che paga i contributi sull’ intero ammontare di 40 mila euro e quindi versa 10.800 euro alla gestione separata dell’ Inps. È vero che il lavoratore dipendente poi sborsa un 3,86% di altri oneri sociali, ma perché questi contributi danno luogo ad altrettante prestazioni come indennità di tutela dalla disoccupazione, formazione, assegni familiari e indennità di malattia e maternità. Il professionista a partita Iva paga oneri sociali più bassi (0,72%) perché le prestazioni del suo welfare sono ridottissime, per usare un eufemismo. La memoria di Acta termina affrontando il tema dei criteri di individuazione delle «finte partite Iva». Il sospetto si può avere quando nell’ impresa committente esiste un’ analoga mansione svolta da un dipendente e il trattamento economico della partita Iva sia inferiore del 120%. Oppure quando il 75% del fatturato di una partita Iva sia in regime di mono-committenza per due anni consecutivi con lo stesso datore di lavoro e nel caso che il fatturato non sia superiore ai 20 mila euro. Ce n’ è abbastanza per avviare una discussione finalmente costruttiva. Volendo.
Se la Partita Iva è un Bancomat
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