La sua idea di lavorare tutti una settimana di più per superare la crisi viene bocciata dagli economisti, e pure con qualche risata. Perché avrebbe solo effetti negativi.
Lavorare una settimana in più? Non mi sembra una proposta molto coerente con questa fase in cui c’è un eccesso di offerta di lavoro. Certo, se è a parità di retribuzione un senso ce l’ha, quello della riduzione dei costi. Ma è come dire che bisogna accettare una riduzione delle retribuzioni», dice l’economista e manager Innocenzo Cipolletta. Sulla stessa linea Enrico Giovannini, presidente dell’Istat: «Tanto valeva proporre direttamente un taglio dei salari».
Dire che la proposta del sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo («Rinunciamo a una settimana di ferie a parità di salario, il Pil crescerebbe un punto in più») ha suscitato un dibattito sarebbe un’esagerazione. Persino la Confindustria la definisce “riduttiva”. Anche perché già oggi gli italiani sono tra quelli che lavorano più ore annue. Secondo un recente studio dell’Ocse 1.778 ore annue pro-capite nel 2010, contro le 1.408 della Germania e le 1.337 dell’Olanda, che sono in fondo a questa classifica. Guidata dalla Grecia con 2.017 ore.
Neanche in Europa Polillo riscuote consensi. «La produttività non si migliora lavorando di più, ma potenziando la formazione, investendo in tecnologia, in innovazione, migliorando i processi produttivi e formativi», commenta Laszlo Andor, Commissario Ue al lavoro e alle politiche sociali. Aggiunge Javier Cercas, eurodeputato socialista spagnolo, relatore della direttiva sull’orario di lavoro: «In Spagna c’è un proverbio che dice “quando un tonto prende una strada, la strada finisce e il tonto continua a camminare”. Se l’Europa vuole vincere la sfida delle competitività deve puntare sulla qualità e l’innovazione, non sulla quantità dove non possiamo competere con la Cina. Non abbiamo bisogno di più giorni di lavoro ma di avere più gente con una buona formazione».
Già, perché una cosa è il tempo di lavoro, un’altra la produttività, e lì l’Italia non sembra messa benissimo. Secondo lo stesso studio Ocse, siamo 24esimi su 34 paesi esaminati, a fronte di un quinto posto dell’Olanda, sesto della Francia e settimo della Germania. Ma quello della produttività è un problema complesso. Intanto bisogna vedere come si misura. L’Ocse lo fa qui rapportando le ore lavorate al Pil, ma non è l’unico sistema.
Cipolletta, che ha appena prodotto uno studio sull’argomento insieme a Sergio De Nardis di Nomisma, spiega: «Bisogna distinguere tra incrementi della produttività e il suo livello assoluto. E’ vero che negli ultimi 10-15 anni i nostri incrementi sono stati molto modesti, ma eravamo su un livello assai elevato. Ancora oggi, se misuriamo la produttività in Pil per occupato espresso in parità di potere d’acquisto (Ppa), siamo appena sotto la media euro e ancora sopra la Germania. Certo, una misura di questo genere non ha un valore assoluto, perché non considera la composizione per settore: se si fa il conto con il Pil in euro correnti invece che in Ppa siamo sotto la Germania; ma ha comunque una sua significatività».
Cipolletta e De Nardis spiegano anche che cosa è accaduto e perché. Fino agli anni ’90 la nostra economia era ad alta intensità di capitale, il che implicava un basso tasso di partecipazione al lavoro, molto sotto la media Ue. Con le riforme di quel decennio ? l’accordo governo-Confindustria-sindacati del ’93, l’abolizione della scala mobile e poi il “pacchetto Treu” e la cosiddetta “legge Biagi” ? moderazione salariale e maggiore flessibilità del lavoro portarono a un deciso aumento del tasso di attività (ossia del numero complessivo di persone che lavorano). Ma dato che, nel frattempo, la crescita del Pil è stata bassissima (solo uno 0,2 per cento medio annuo) la produttività si è fermata. Un effetto inevitabile, osserva Cipolletta, se si voleva affrontare il problema di far lavorare più persone.
Un’analisi su cui concorda Giovannini, che introduce però un altro elemento. «La produttività per addetto cresce in parallelo con la dimensione aziendale, soprattutto nella manifattura, nonostante che nelle imprese di minori dimensioni si lavori molte più ore che nelle imprese maggiori. Ma su circa 4,4 milioni di imprese nell’industria e nei servizi sono solo 80 mila quelle con più di 20 addetti. Aggiungerei che tanti anni di moderazione salariale hanno sì fatto aumentare l’intensità di lavoro, ma hanno anche permesso agli imprenditori di fare guadagni senza fatica, riducendo gli stimoli a fare investimenti e sviluppare l’innovazione». Una recente ricerca di un altro economista, Riccardo Gallo, fornisce un dato impressionante in proposito: al 2009 gli investimenti (misurati a prezzi 2000) erano diminuiti di oltre il 35 per cento rispetto al 1992. E ancora: nel 2003 si accantonavano fondi per ammortizzare il patrimonio tecnico in 16,4 anni: tanto, dunque, si pensava che dovessero funzionare gli impianti prima di cambiarli. Un dato di poco superiore alla media delle maggiori multinazionali. Nel 2010 gli ammortamenti presuppongono che gli impianti debbano durare ben 26,4 anni. I concorrenti esteri sono scesi a circa 13.
Un altro aspetto non positivo sottolineato da Giovannini è che la quantità di importazioni tende ad aumentare più dell’export, soprattutto per l’acquisto di beni intermedi. In altre parole, i prodotti che vendiamo all’estero hanno un maggior contenuto di beni che a nostra volta abbiamo comprato in altri paesi invece di produrli in Italia; ciò, se da un lato può contribuire a migliorare la competitività delle nostre imprese esportatrici, dall’altro determina, almeno nel breve periodo, un peggioramento della bilancia commerciale. E’ probabile che in questo abbia un ruolo la delocalizzazione da parte di imprese italiane, di pezzi del ciclo produttivo. Ipotesi che ben si accorda con un’altra osservazione del presidente dell’Istat: «In un mondo globalizzato, non è detto che si reinvesta nel paese dove i lavoratori hanno fatto i sacrifici».
Nell’industria, osservano Cipolletta e De Nardis, nel periodo 2003-2007 (cioè fino all’inizio della crisi) la produttività totale dei fattori dovrebbe essere cresciuta del 2 per cento all’anno, tornando sui ritmi degli anni ’90. Ma l’industria ha un peso limitato nel sistema produttivo, il 19 per cento, e il rimanente 81 non ha compiuto progressi analoghi. Quindi il problema è lì, nella produttività dei servizi innanzitutto, e in particolare in quelli che sono stati privatizzati o affidati in gestione ai privati senza che questo fosse accompagnato da liberalizzazioni adeguate e controlli più attenti. In gran parte al riparo dalla concorrenza internazionale, hanno attratto gli investimenti dei grandi gruppi privati che fruiscono così di cospicue sacche di rendita, a scapito dell’efficienza generale del sistema produttivo. Dunque non è con un aumento delle ore di lavoro a parità di salario (e quindi ancora una volta un intervento sul costo del lavoro) che si può migliorare la performance della nostra economia.
Lavorare di piu’, e gratis
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