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Sul welfare e sanita’ non bocciamo il “montismo”

Nei giorni scorsi alcune considerazioni di Mario Monti sull’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale (SSN) in conseguenza degli andamenti demografici, delle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione e della crisi di risorse pubbliche hanno suscitato tante proteste, sostanzialmente ideologiche, da parte di settori della sinistra e della Cgil. Eppure, il premier si era limitato ad esprimere opinioni sostenute da tutte le analisi e le previsioni degli osservatori italiani, europei ed internazionali nonché avvalorate da una vasta letteratura scientifica ed economica.
Che cosa dire? La sinistra politica e sindacale trova sempre un muro di Berlino da erigere e difendere. Del resto, fu proprio Enrico Berlinguer, nel 1978, a dichiarare che nella istituzione del SSN erano presenti (dimenticò di aggiungere l’aggettivo ). Eppure, basta compiere un passo più in là per imbattersi in riflessioni molto più articolate e serie. L’autorevole (una meritoria pubblicazione della Cgil, aperta alle migliori esperienze planetarie in materia di Stato sociale, ricca di saggi ed articoli di grande interesse) dedica il fascicolo n.3 del 2012 al tema del welfare contrattuale ed aziendale, che, nel nostro Paese, rappresenta una prassi significativamente diffusa da almeno 15-20 anni.
In un saggio (Dal welfare di cittadinanza al welfare nel lavoro? Contrattazione collettiva e iniziativa d’impresa in Italia, scritto da Ugo Ascoli, Maria Luisa Mirabile, Emmanuele Pavolini) vengono descritti e commentati i risultati di una indagine dell’Ires, il centro studi della Cgil stessa, condotta su di un campione stratificato per settore ed area geografica di 318 grandi imprese italiana (con almeno 500 addetti) appartenenti a tutti i settori dell’economia.
Ne deriva, in primo luogo, che praticamente la quasi totalità delle aziende (95,2%) ha introdotto qualche forma di welfare privato. Escludendo il tema delle pensioni complementari (quello più consolidato e regolato nel contesto del sistema pensionistico nel suo complesso) il numero delle aziende interessate si riduce pur sempre all’80%, una percentuale più che rilevante.
Nel 2012, la natura degli interventi di welfare all’interno delle aziende di grandi dimensioni è così ripartita: l’87,5% partecipa ad un fondo pensione, il 60,6% ad un fondo sanitario, il 39% si avvale di un sistema di prestiti agevolati, il 27,6% ha messo a disposizione dei propri dipendenti congedi extra, il 24,4% fornisce agevolazioni al consumo, il 23,3 % eroga misure di sostegno al reddito, il 23,1% borse di studio, il 18,5% servizi di cura per l’infanzia, il 9,4% ha un fondo per long-term care, il 6,7% favorisce l’uso di alloggi. Come si vede, oltre il 60% delle grandi imprese italiane assicura ai propri dipendenti un assistenza sanitaria privata (nel fascicolo è contenuta un’ampia rassegna delle forme esistenti, delle prestazioni erogate, delle modalità di funzionamento e dei relativi costi a carico delle imprese e, parzialmente, dei lavoratori).
Un altro aspetto meritevole di attenzione, che emerge dall’indagine, riguarda la presenza (66,8%) di fondi di previdenza sanitaria integrativa nei contratti nazionali di categoria e l’arco temporale in cui il servizio è stato istituito. Prima del 2001 si trattava di una presenza praticamente dimezzata (35,4%), mentre una forte accelerazione si è avuta tra il 2006 e il 2012. Come per gli altri interventi di welfare privato, anche in questo campo, le aziende sono più disposte a concedere prestazioni sociali – che godono di incentivi e di vantaggi fiscali – piuttosto che aumenti retributivi. Lo stesso gradimento vale anche per i lavoratori dal momento che la presenza di benefit e di servizi di welfare aziendale è maggiore nelle imprese con un alto tasso di sindacalizzazione (oltre il 40%). Certo, gli autori fanno notare che le prestazioni sociali a livello aziendale finiscono per favorire gli insiders e gli assunti a tempo indeterminato.
Tuttavia, non avrebbe senso – sosteniamo noi – imporre un’eguaglianza ragguagliata ai disservizi del modello pubblico. E’ ugualmente vero, però, che non si potrà mai costruire un sistema alternativo basato sulla frammentazione degli interventi, che adesso rappresentano una risposta ancora parziale ad un profondo disagio sociale determinato dal peso del fisco e dalle inefficienze del sistema universalistico pubblico. Ma si pone davvero l’esigenza di una nuova actio finium regundorum tra il ruolo pubblico e quello privato nella sanità.
In Italia non è solo in crescita, rispetto al pil, la spesa sanitaria pubblica; lo è anche quella privata (oltre il 2% del pil) sostenuta largamente out of pocket dalle famiglie. Una spesa molto spesso indirizzata ad acquistare beni e servizi già garantiti dal sistema pubblico. Si profila dunque la necessità di una razionalizzazione, stabilendo quale ambito di intervento e per quali soggetti vadano assicurate le prestazioni garantite dal SSN, lasciando il resto all’iniziativa privata collettiva ed individuale. In sostanza, si tratterebbe di organizzare, nell’interesse della tutela della salute, dell’efficienza dei servizi e del risparmio dei costi sostenuti, il welfare di mano pubblica e quello assicurato tramite strumenti privatistici.

Fonte: Occidentale del 9 dicembre 2012

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